Consulta: illegittima la riduzione del trattamento economico dirigenti e manager pubblici

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 223 depositata l’11 ottobre 2012, ha ritenuto illegittimi i commi 2 e 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 che prevedevano la riduzione del trattamento economico complessivo, del 5% una volta superati i 90.000 euro annui lordi, e del 10% una volta superati i 150.000 euro, per i dirigenti e manager pubblici ed i magistrati, perché violano il principio di eguaglianza.

SENTENZA N. 223

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 9, commi 2, 21 e 22 e 12, commi 7 e 10 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, con ordinanza del 23 giugno 2011, dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte con ordinanza del 28 luglio 2011, dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto con ordinanza del 15 novembre 2011, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con ordinanza del 14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia con ordinanza del 14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo, sezione di Pescara, con ordinanza del 13 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, con due ordinanze del 25 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, con ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con due ordinanze del 1° febbraio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, con ordinanza del 22 febbraio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, con ordinanza dell’11 gennaio 2012 e dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, con ordinanza del 10 gennaio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 219 e 248 del registro ordinanze 2011 ed ai nn. 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 75, 76, 81 e 94 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 7, 9, 14, 15, 17, 18, 19 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione di Allegro Anna ed altri, di Baglivo Antonio ed altri, di Bruni Bruno Francesco ed altri, di Abate Francesco ed altri, di Bruno Eleonora ed altri, di Campo Lucia Anna ed altri, di Angeleri Alessandra ed altri, di Chiappiniello Agostino ed altri, di Anedda Ornella ed altri, di Casanova Cinzia ed altri, di Arena Annalisa ed altri, di Cicciò Giacomo, di Interlandi Caterina ed altri, nonchè gli atti di intervento di Abbritti Paolo e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Vittorio Angiolini per Allegro Anna ed altri, per Baglivo Antonio ed altri, per Bruni Bruno Francesco ed altri, per Abate Francesco ed altri, per Bruno Eleonora ed altri, per Campo Lucia Anna ed altri, per Angeleri Alessandra ed altri, per Anedda Ornella ed altri, per Casanova Cinzia ed altri, per Arena Annalisa ed altri, per Cicciò Giacomo, per Interlandi Caterina ed altri, Sandro Campilongo per Chiappiniello Agostino ed altri, e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione distaccata di Salerno, sezione I, con ordinanza del 23 giugno 2011, iscritta al reg. ord. n. 219 del 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53 e 104, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

1.1.— Il rimettente premette che i ricorrenti – tutti magistrati ordinari in servizio presso Uffici giudiziari ricompresi nell’ambito di competenza territoriale del giudice adito – chiedevano al TAR la declaratoria di illegittimità delle decurtazioni del rispettivo trattamento retributivo, derivanti dalla applicazione delle disposizioni finanziarie contenute nel comma 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, domandando altresì il consequenziale riconoscimento del diritto al trattamento retributivo, senza tener conto delle riduzioni contestate. I magistrati istanti prospettavano in particolare il vizio di violazione di legge sotto plurimi profili, nonché l’illegittimità costituzionale della normativa primaria.

Nel giudizio, costituitesi le Amministrazioni intimate, Ministero della Giustizia e Ministero dell’Economia e delle Finanze, veniva fissata udienza per la discussione dell’istanza cautelare e veniva spiegato atto di intervento.

1.1.1.— Il TAR ritiene, in primo luogo, che la questione prospettata sia rilevante, in quanto la disposizione censurata costituirebbe «l’unico ed immediato paradigma normativo di riferimento delle contestate misure applicative». Inoltre, la questione non sarebbe manifestamente infondata, in particolare con riguardo all’art. 9 comma 22 del d.l. n. 78 del 2010, quale risultante dalle modifiche introdotte con la legge di conversione.

1.1.2.— In particolare, per quanto riguarda le misure incidenti sugli automatismi stipendiali che caratterizzano la progressione economica, il giudice a quo rileva che il meccanismo di blocco prefigurato si porrebbe in contrasto con l’art. 104, primo comma, Cost., in quanto violerebbe il principio per cui il trattamento economico dei magistrati non sarebbe «nella libera disponibilità del potere, legislativo o maiori causa del potere esecutivo» trattandosi di un aspetto essenziale all’attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza. Un tale assunto sarebbe stato più volte ribadito dalla Corte costituzionale, secondo cui il cosiddetto adeguamento automatico rappresenterebbe un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei magistrati, diretto alla «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza» (sentenza n. 1 del 1978), in modo da evitare che questi «siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri» (sentenza n. 42 del 1993), concretizzando dunque “una guarentigia” (sentenza n. 238 del 1990). Inoltre, tale tradizione costituzionale sarebbe confermata dagli artt. 2 e 4 della cosiddetta Magna carta dei Giudici, approvata a Strasburgo il 17 novembre 2010 dal Consiglio d’Europa – Comitato consultivo dei Giudici europei (CCJE), la quale, sebbene priva di valore cogente, costituirebbe comunque una fondamentale deliberazione, utile al fine di interpretare le disposizioni interne, esprimendo tale atto «tradizioni costituzionali» dei quarantasette Stati europei che ne sono membri.

Il rimettente ritiene, quindi, che, alla luce della citata giurisprudenza e dei citati principi, dovrebbe ritenersi che il trattamento economico dei magistrati debba essere non soltanto «adeguato» alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della Costituzione), ma anche «certo e costante, e in generale non soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)».

1.1.3.— Quanto alla riduzione percentuale dell’indennità integrativa speciale (rectius giudiziaria), il rimettente ritiene, in primo luogo, che, alla luce del contesto normativo, essa si concreterebbe in una prestazione patrimoniale imposta di natura sostanzialmente tributaria e, quindi, come tale assoggettata ai vincoli di cui agli artt. 23 e 53 della Carta costituzionale. Tale misura, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, avrebbe dovuto gravare su “tutti” i cittadini in ragione della loro capacità contributiva, in virtù del principio di generalità delle imposte, in un sistema informato a criteri di progressività.

A giudizio del TAR, il requisito della capacità contributiva, di cui all’art. 53 Cost., inteso quale “valore” diretto ad orientare la discrezionalità del legislatore di fronte ai fenomeni tributari, si sostanzierebbe in quello per cui «a situazioni uguali, corrispondono tributi uguali», sicchè il sacrificio patrimoniale che incida soltanto sulla condizione e sul patrimonio di una determinata categoria di pubblici impiegati, lasciando indenni, a parità di capacità reddituale, altre categorie di lavoratori (“segnatamente autonomi”), risulterebbe arbitrario ed irragionevole, e pertanto in contrasto, non solo con l’art. 53, ma anche con l’art. 3 della Costituzione.

In questo caso, inoltre, trattandosi di una indennità, componente essenziale del trattamento retributivo soltanto dei magistrati, l’intervento di abbattimento si sostanzierebbe in un selettivo ed odioso tributo speciale ratione subiecti.

Ancora, a giudizio del rimettente tale “tributo” sarebbe “sostanzialmente regressivo”, in quanto, essendo l’indennità (ex art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 –Provvidenze per il personale di magistratura) corrisposta in misura uguale ad ogni magistrato, la sua decurtazione finisce in concreto per colpire in misura minore i magistrati con retribuzione complessiva più elevata ed in misura maggiore i magistrati con retribuzione complessiva inferiore, in violazione, del canone di cui al secondo comma dell’art. 53 Cost.

Inoltre, anche tale intervento finanziario, sarebbe in contraddizione con il citato principio per cui il trattamento economico dei magistrati «non può ritenersi nella libera disponibilità del Legislativo o dell’Esecutivo», trattandosi anche in questo caso di aspetto essenziale per attuare il precetto costituzionale dell’indipendenza (art. 104, primo comma, Cost.).

Per altro verso, poi, il rimettente evoca il contrasto con l’art. 36 della Costituzione, in quanto essendo il trattamento economico del magistrato considerato adeguato, solo in quanto integrato dalla indennità in oggetto, la decurtazione di quest’ultima non potrebbe che incidere sulla proporzione tra la retribuzione complessiva del magistrato ed il lavoro giudiziario svolto, determinando una alterazione dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi.

Infine, il giudice a quo censura il citato art. 9, comma 22, per violazione dell’art. 3 Cost., anche perché l’omogenea riduzione percentuale di un’indennità, che è evidentemente destinata a compensare gli oneri del lavoro giudiziario, finirebbe per compensare in modo minore i magistrati con minore anzianità di servizio, notoriamente impegnati in sedi disagiate con esposizione a rischi ed oneri spesso di fatto maggiori dei colleghi più anziani.

1.2.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione II, con ordinanza del 28 luglio 2011, iscritta al reg. ord. n. 248 del 2011, ha analogamente sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

1.2.1.— Anche in questo caso il rimettente premette di essere investito di ricorsi da parte di magistrati appartenenti all’ordine giudiziario, per ottenere il riconoscimento delle retribuzioni ad essi spettanti, senza le riduzioni operate in forza delle norme censurate, di cui viene sospettata l’illegittimità costituzionale. In particolare, poi, l’ordinanza di rimessione precisa, in questo caso, che le censure esposte in ricorso non riguardano i “sacrifici” economici richiesti a tutte le componenti del lavoro pubblico, bensì soltanto «la lesione che deriva all’indipendenza dei componenti della Magistratura, alla quale è funzionale la adeguatezza del trattamento economico e soprattutto la sottrazione a scelte discriminatorie di altri poteri dello Stato».

1.2.2.— Il giudice a quo premette ancora che la normativa censurata si ricava dal coacervo normativo dei commi 21 e 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, in quanto per i magistrati, così come per tutte le altre categorie del personale non contrattualizzato, viene introdotto il blocco dei «meccanismi di adeguamento retributivo» previsto dal primo periodo del comma 21, la cui operatività è estesa sia a livello di acconto che a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo) dal primo periodo del comma 22; per i soli magistrati (di tutte le magistrature), a differenza delle altre categorie del personale non contrattualizzato, sono poi salvaguardati i meccanismi di «progressione automatica dello stipendio», ossia gli scatti di carriera, non applicandosi ai medesimi il periodo secondo e terzo del comma 21.

In definitiva, ai soli magistrati viene operata una riduzione crescente nel tempo dell’indennità giudiziaria (ex art. 3 della legge n. 27 del 1981), come previsto dal secondo periodo del comma 22, vengono bloccati gli acconti (anni 2011, 2012 e 2013) e conguagli (triennio 2010-2012) e vengono introdotti, sempre in forza del comma 22, “tetti” all’acconto per l’anno 2014 (che non può superare quello del 2010) e al conguaglio per l’anno 2015 (determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo quindi il triennio 2011-2013).

1.2.3.— In punto di rilevanza il TAR osserva che — trattandosi di norme di immediata applicazione, giacché le parti ricorrenti subiscono nel corrente anno 2011 il blocco del meccanismo di adeguamento retributivo, nonché il blocco di acconti e conguagli cui avrebbe avuto altrimenti diritto, oltre ad avere già subito la decurtazione della indennità giudiziaria — la domanda di riconoscimento del diritto al mantenimento della precedente disciplina del trattamento economico non potrebbe essere esaminata senza il preventivo scrutinio di costituzionalità del citato art. 9, comma 22.

1.2.4.— Nel merito l’ordinanza ripercorre le motivazioni dell’analogo atto di rimessione del TAR Campania, già sintetizzato ed espressamente richiamato negli atti.

A giudizio del TAR Piemonte le norme censurate si porrebbero in contraddizione con i precetti costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza, di cui agli artt. 101 e 104, Cost., valori, peraltro, a loro volta funzionali «all’esercizio imparziale ed obiettivo della funzione giudicante, come esigono molteplici norme costituzionali anche in vista della celebrazione di un “giusto” processo (cfr. artt. 24, 103 e 111 Cost.; sentenza n. 381 del 1999)». In questo senso, il rimettente osserva che uno strumento formalmente incidente solo sulla retribuzione del magistrato, condurrebbe in realtà ad un indebito condizionamento sull’esercizio della funzione giurisdizionale, costringendo l’Ordine di appartenenza, ed addirittura il singolo magistrato, ad un confronto con il pubblico potere al fine di ripristinare le proprie condizioni economiche, «generando un sotterraneo conflitto tra Istituzioni che mina alla radice la serenità del Giudice».

Tali conseguenze, poi, sarebbero ancora più evidenti, in quanto «associando la riduzione stipendiale alle ben note polemiche tra poteri dello Stato», «la misura legislativa potrebbe apparire come una sorta di punizione o di monito per il Potere giudiziario», rendendo manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia gerarchica di un Potere sull’altro, in contrasto «con i dettami costituzionali che improntano i rapporti tra Poteri alla separazione, all’equilibrio ed al bilanciamento». Del resto, i principi evocati sarebbero volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione, assicurando la dignità dell’intero ordine giudiziario. In tal senso si sarebbe peraltro espresso il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella raccomandazione del 17 novembre 2010.

1.2.5.— Quanto alla violazione degli artt. 3, 23, 36 e 53, Cost., il rimettente ripropone in misura del tutto coincidente le argomentazioni sottese all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 219 del 2011, in particolare quanto alla decurtazione dell’indennità giudiziaria, che configurerebbe un prelievo avente natura di prestazione patrimoniale, imposta sostanzialmente tributaria, in cui il sacrificio patrimoniale incide soltanto su di una determinata categoria di pubblici impiegati, lasciando indenni, a parità di capacità reddituale, altre categorie di lavoratori. Inoltre, il contrasto con l’art. 36, Cost. sarebbe evidente in quanto le misure adottate finirebbero per alterare la “proporzione” fra la retribuzione del magistrato ed il suo lavoro giudiziario, inteso complessivamente come l’insieme delle attività materiali, delle attività giuridiche, delle responsabilità e degli oneri su di esso gravanti.

1.3.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione I, con ordinanza del 14 dicembre 2011, iscritta al reg. ord. n. 20 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53, 97, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

1.3.1.— Il rimettente premette in questo caso che non risulta oggetto di specifica domanda nel giudizio a quo l’accertamento dell’illegittimità della trattenuta stipendiale operata su tutti i pubblici dipendenti, ivi compresi i magistrati, in base al comma 2 dell’art. 9 del medesimo d.l. n. 78 del 2010.

1.3.2.— Secondo il giudice rimettente, la questione sarebbe rilevante in quanto l’eventuale pronuncia di incostituzionalità determinerebbe de plano l’accertamento dell’illegittimità del mancato adeguamento degli stipendi e delle trattenute ed il consequenziale accoglimento del ricorso. In particolare, limitatamente alle parti della norma relative all’adeguamento triennale, il TAR per la Sicilia ritiene di non seguire l’interpretazione costituzionalmente orientata sollecitata in via principale dai ricorrenti, secondo cui non contenendo la norma impugnata specificazioni in ordine a quali siano gli acconti e i conguagli oggetto di mancata erogazione, essa di fatto non potrebbe trovare applicazione; ciò in quanto il meccanismo retributivo del personale di magistratura sarebbe sufficientemente chiaro, perché determinato in base degli incrementi conseguiti nel precedente triennio dalle altre categorie del pubblico impiego e realizzato mediante due acconti di pari importo nel secondo e nel terzo anno del triennio, con un successivo conguaglio.

1.3.3.— In primo luogo, il rimettente assume che le disposizioni riguardanti sia il blocco degli automatismi stipendiali per il triennio 2011-2013, sia il taglio della indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981 contrastino con gli articoli 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., espressione dei principi di autonomia ed indipendenza della magistratura, funzionali a loro volta alla celebrazione del giusto processo di cui all’art 111, primo e secondo comma, Cost. A giudizio del TAR, la necessità di garantire un processo giusto ed equo davanti ad un tribunale indipendente sarebbe rinvenibile anche nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, per il tramite dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, «è entrata a far parte diretta del nostro tessuto costituzionale».

La Corte costituzionale avrebbe, in più occasioni, precisato come il precetto costituzionale dell’indipendenza della magistratura debba essere salvaguardato anche sotto il profilo economico ed, in particolare, in riferimento al meccanismo di adeguamento automatico, avrebbe ulteriormente osservato come esso, evitando che i magistrati siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, concretizzi «una guarentigia idonea a tale scopo» (sentenza n. 238 del 1990, ordinanze n. 137 del 2008 e n. 346 del 1998).

Ciò posto, anche la speciale indennità giudiziaria e la sua rivalutazione, in quanto intrinsecamente connessa allo status di magistrati e parte essenziale e “normale” del trattamento economico, avrebbe tale scopo e le medesime esigenze di tutela. Anche in questo caso la Corte costituzionale avrebbe, infatti, ricondotto la rivalutazione di tale indennità a quella ratio di tutela dell’indipendenza, che non potrebbe essere negata, dunque al trattamento principale (in particolare, viene invocata la citata sentenza n. 238 del 1990).

Tale tradizione costituzionale sarebbe confermata dalla «Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità», atto adottato a Strasburgo dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010, al cui punto 54 si afferma che la retribuzione dei magistrati debba essere tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni» e si invita gli Stati membri ad adottare «specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente ai giudici».

Analogamente concluderebbe la cosiddetta Magna Carta dei Giudici, approvata a Strasburgo il 17 novembre 2010 dal Comitato consultivo dei Giudici europei (CCJE), che, sebbene priva di valore cogente, esprimerebbe comunque le tradizioni costituzionali dei 47 Stati membri.

1.3.3.1.— Sotto altro profilo, poi, il giudice a quo ritiene che l’intervento finanziario in questione, mediante uno strumento che apparentemente incide solo sulla retribuzione del magistrato, è in grado di operare un indebito condizionamento sull’esercizio della funzione giurisdizionale, costringendo il magistrato ad un confronto con il pubblico potere al fine di elidere o attenuare le conseguenze negative della misura, generando in tal guisa un sotterraneo conflitto tra Istituzioni che mina alla radice la serenità del giudice e rischia di veder diminuito il credito ed il prestigio di cui il singolo magistrato e l’Ordine giudiziario devono godere presso la comunità dei cittadini.

La disciplina censurata potrebbe, anzi, apparire come una sorta di punizione o di monito per il potere giudiziario, rendendo manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia gerarchica di un potere sull’altro, ingenerando l’idea di un magistrato “influenzabile” dalla consapevolezza che il taglio stipendiale disposto oggi potrebbe ben essere ripetuto o addirittura inasprito, in spregio proprio ai principi costituzionali di autonomia ed indipendenza. Ritiene il rimettente, infatti, che sebbene al legislatore sia consentito bilanciare tali principi con altri valori costituzionali in ipotesi configgenti, fra i quali quelli del rispetto delle esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica, tuttavia un intervento sui meccanismi retributivi dei magistrati, avrebbe dovuto essere adottato «in uno scenario di coinvolgimento di tutti i contribuenti secondo i principi di pari capacità contributiva e progressività», nel rispetto dei principi di proporzionalità, ragionevolezza ed eguaglianza e non attraverso una manovra irrazionale, sproporzionata e discriminatoria.

1.3.4.— Il TAR per la Sicilia dubita della legittimità costituzionale della disciplina in esame anche perché essa violerebbe gli artt. 3, 53, primo e secondo comma, della Costituzione.

Tutte le disposizioni contenute nel comma 22, ma anche quelle contenute nei commi 1 e 21 dell’art. 9 citato, introdurrebbero, nel loro complesso, misure finalizzate ad incidere in maniera consistente sul trattamento economico dei magistrati per gli anni 2011, 2012 e 2013 (ed anche per l’anno 2014). A giudizio del collegio rimettente tali interventi, anche se presentati come mere misure di riduzione della spesa pubblica, avrebbero in realtà natura tributaria, e conseguentemente avrebbero dovuto essere assoggettati ai principi di universalità, capacità contributiva e progressività di cui all’art. 53 della Costituzione.

Le disposizioni in oggetto avrebbero tutte le caratteristiche elaborate dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie alcune entrate. In particolare, si tratterebbe di una prestazione doverosa, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e collegata alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (sentenze n. 141 del 2009, n. 335 del 2008, n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005). Non vi sarebbe dubbio, infatti, in primo luogo, che le trattenute operate siano state effettuate dallo Stato «a prescindere da qualsivoglia rapporto sinallagmatico, nel senso che esse non trovano ragione in una controprestazione in favore del dipendente ma sono imposte in via autorititativa». Inoltre, esse si collegherebbero senz’altro alla spesa pubblica, come sarebbe evidente dall’incipit del comma 2 dell’art. 9, che giustifica l’intervento: «In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea». Tale formulazione renderebbe infatti evidente che la ratio delle disposizioni collega la peculiarità degli strumenti utilizzati dal legislatore d’urgenza del 2010 ad obiettivi di carattere finanziario, «ossia alla messa a disposizione di risorse economiche per le esigenze dell’Erario».

L’imposizione di un sacrificio economico individuale, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, e la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica, apprestando i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a coprire spese, costituirebbero, dunque, proprio quegli elementi essenziali dei tributi individuati dalla giurisprudenza costituzionale.

In definitiva, secondo il rimettente, la qualificazione come mera riduzione di spesa non potrebbe elidere la vera natura tributaria delle misure, poiché «ogni imposizione tributaria (tassa, tributo o contributo), che incida sugli stipendi dei pubblici dipendenti decurtandoli, si risolve sul piano effettuale in una riduzione della spesa pubblica, ma per ciò solo non muta la propria natura», che non potrebbe essere ricavata dall’effetto di bilancio che tali disposizioni producono, ma dalla loro natura intrinseca.

Ciò posto, secondo il TAR sarebbe evidente l’illegittimità dell’art. 9, comma 22 (ed anche della disposizione non censurata riguardante il “contributo di solidarietà”), in quanto incidente sul reddito di una sola “micro categoria” sociale, quella dei magistrati. Il legislatore avrebbe, infatti, a parità di capacità contributiva ed in violazione dell’art. 53 della Costituzione, deciso di colpire, con misure continuative – prolungate nel triennio 2011-2013 (con possibile estensione al 2014) ed in parte al biennio 2014-2015 – solo una determinata classe sociale: i dipendenti pubblici (quanto al comma 2 dell’art. 9), e «con misure ancora più incisive rispetto agli stessi dipendenti pubblici, una ancora più particolare e ristretta classe di contribuenti, i magistrati», realizzando «un tributo odioso e speciale ratione subiecti» (TAR Campania, ordinanza di rimessione n. 1162 del 2011). Non solo ma tale violazione sarebbe ancor più grave in quanto riferita proprio a quella categoria di contribuenti la cui tutela del trattamento stipendiale risponderebbe a quei principi di natura costituzionale specifici, di cui alla prima censura.

1.3.4.1.— Quanto specificamente al taglio dell’indennità giudiziaria, il rimettente ne denuncia anche la violazione del principio di progressività e di ragionevolezza intrinseca, in quanto, trattandosi di una componente della retribuzione corrisposta in misura fissa, il prelievo inciderebbe in misura inversamente proporzionale alla capacità contributiva del singolo magistrato. Sebbene, infatti, i criteri di progressività debbano informare il ‘‘sistema tributario’’ nel suo complesso e non i singoli tributi, la scelta adottata dal legislatore di incidere sul presupposto economico del reddito da lavoro, per coerenza di sistema e ragionevolezza avrebbe dovuto imporre la progressività, «atteso che tale natura ha l’I.r.p.e.f., ossia la principale imposta sul reddito delle persone fisiche, e quindi anche sul reddito da lavoro dipendente».

1.3.4.2.— Il TAR per la Sicilia dubita ancora della legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 (ma anche del predetto contributo di solidarietà non impugnato) per violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza legislativa e di solidarietà sociale, politica ed economica di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Posto che la matrice comune di tali interventi finanziari sarebbe costituita dalla straordinaria necessità di contenere la spesa pubblica e di perseguire finalità di stabilizzazione finanziaria e rilancio della competitività economica, al fine di fronteggiare la ben nota crisi economica nazionale ed internazionale, essi avrebbero dovuto riguardare la collettività nel suo insieme, in virtù dei “doveri inderogabili” di cui all’art. 2, e non solo i redditi da lavoro dipendente pubblico e, in misura maggiore, i redditi da lavoro dipendente dei soli magistrati, con esclusione delle identiche condizioni di tutti i percettori di reddito aventi la stessa capacità contributiva.

Sotto altro profilo, l’art. 3, Cost. sarebbe violato in considerazione del diverso trattamento riservato per altri redditi da lavoro (autonomo o dipendente privato), non essendo rinvenibile alcuna ratio giustificativa per la quale «i lavoratori del settore privato (dipendenti o autonomi) non debbano essere assoggettati a riduzioni stipendiali, con corrispondente introito a vantaggio dell’Erario», tenuto peraltro conto che le retribuzioni del settore privato, «specialmente ai livelli dirigenziali e manageriali delle imprese, per non parlare dei professionisti più facoltosi (ad esempio i notai e i farmacisti ma anche i più affermati tra gli avvocati, i medici specialisti, gli ingegneri, gli architetti), risultano enormemente più elevate di quelle del settore pubblico».

A giudizio del rimettente, la violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione risulterebbe evidente in quanto gli interventi contenuti nella manovra tratterebbero ingiustificatamente in maniera diversa le categorie di pubblici dipendenti, pur a fronte di una identica situazione reddituale. Mentre, infatti, per tutti i pubblici dipendenti, nel triennio 2011-2013 i trattamenti retributivi, sino alla soglia di 90.000 euro lordi annui non possono aumentare, ma neppure decrescono, in forza del combinato disposto delle disposizioni censurate, l’unica categoria che vede ridursi il proprio trattamento economico sarebbe quella dei magistrati, il cui trattamento stipendiale peraltro risponde ai summenzionati principi di natura costituzionale. Tale disparità di trattamento sarebbe peraltro ulteriormente confermata anche in relazione ai pubblici dipendenti che percepiscono più di 90.000 o 150.000 euro annui lordi e che sono tenuti a versare il contributo di solidarietà. Anche in questo caso, infatti, pur in presenza della medesima situazione reddituale e contributiva, i soli magistrati vedrebbero sommarsi al contributo di solidarietà ed al blocco dell’adeguamento retributivo anche i tagli all’indennità giudiziaria, con la conseguenza che solo per essi la riduzione dello stipendio sarebbe sensibilmente maggiore.

1.3.4.3.— Il TAR rimettente invoca, altresì, l’art. 3 Cost. anche quale espressione del canone di ragionevolezza legislativa.

Infatti, le impugnate disposizioni, per fare fronte ad una crisi che grava su tutta la popolazione, impongono un sacrificio rilevantissimo solo ad una categoria ridotta di cittadini, lasciando indenni i redditi e le retribuzioni di tutti gli altri contribuenti, aventi medesima capacità contributiva. L’irragionevolezza di tale intervento legislativo sarebbe vieppiù evidenziato dal fatto che essa verrebbe ad incidere su un trattamento stipendiale, che risponde a principi di natura costituzionale.

L’irragionevolezza delle disposizioni impugnate deriverebbe, inoltre, dall’aver “approfittato” del meccanismo automatico di adeguamento delle retribuzioni, previsto come guarentigia del particolare status e della funzione costituzionale svolta dai magistrati, per ridurre il trattamento economico dei magistrati senza il loro consenso.

Ancora, espressione dell’irragionevolezza dell’intervento normativo sarebbe l’incisione in misura uguale su tutti i magistrati, imponendo «un peso economico in termini proporzionali di gran lunga superiore a coloro che percepiscono uno stipendio minore perchè agli inizi della carriera».

1.3.5.— Con riferimento alla sola riduzione dell’indennità giudiziaria, poi, si deduce la violazione degli artt. 3 e 36 Cost. Per un verso, infatti, la decurtazione sarebbe irragionevole perché impedirebbe il raggiungimento dello scopo che la legge n. 27 del 1981 aveva inteso far assolvere all’indennità stessa, ovvero compensare i magistrati degli oneri che essi incontrano nello svolgimento della loro attività, non risultando corrispondentemente ridotti gli oneri che sui magistrati gravano nel triennio di riferimento. Con l’irragionevole conseguenza che, dovendo i singoli magistrati far fronte a detti oneri gravanti sulla propria attività, per la parte ora non coperta dall’indennità, coloro che percepiscono un minor trattamento economico complessivo avrebbero maggiori difficoltà a fronteggiare i relativi costi.

Per altro verso, poi, la decurtazione inciderebbe, in violazione dell’art. 36 Cost., sulla proporzionalità tra prestazione e retribuzione, poiché inciderebbe solo sull’aspetto quantitativo della retribuzione, lasciando immutata la richiesta di qualità del servizio e della funzione, in tal modo minando anche la dignità della persona-lavoratore nell’esercizio di una delle funzioni più delicate dello Stato.

Ancora, secondo il rimettente, la violazione degli artt. 3 e 36 Cost., rileverebbe anche sotto un diverso profilo. Sebbene, infatti, il legislatore sia abilitato a modificare la disciplina dei rapporti di durata e perfino situazioni di diritto soggettivo perfetto, ivi inclusa la variazione dell’entità e della distribuzione in voci differenziate del trattamento economico di categorie prima egualmente retribuite, non sarebbe consentito che tali modifiche trasmodino in regole irrazionali o arbitrarie, come nel caso di specie in relazione alle altre censure di irragionevolezza.

1.4.— Il Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, sezione I, con ordinanza del 13 dicembre 2011, iscritta al reg. ord. n. 46 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104, 107 e 108 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 2 e 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

1.4.1.— Il rimettente premette di essere investito di un ricorso proposto da alcuni magistrati ordinari.

Il TAR ritiene non manifestamente infondata la questione, «anche nella scia delle ordinanze del TAR Campania, sezione staccata di Salerno, n. 1162 del 23 giugno 2011, TAR Piemonte Sez. II, n. 846 del 28 luglio 2011 e TAR Veneto Sez. I, n. 1685 del 15 novembre 2011».

1.4.2.— In particolare, quanto ai parametri indicati dai ricorrenti, il TAR per l’Abruzzo afferma che rileverebbe il principio desumibile dall’art. 104 della Costituzione, «per cui il trattamento economico dei magistrati si collega strettamente al precetto costituzionale dell’indipendenza dei giudici, che viene garantita anche dall’adeguamento automatico delle retribuzioni, sostanzialmente decurtato dalla normativa in questione».

Inoltre, la prevista riduzione dell’indennità sostanzierebbe, sotto diverso profilo, anche la violazione sia del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., sia del principio di ragionevolezza e di trattamento uguale di situazioni uguali.

Ancora, viene evidenziato il contrasto con l’art. 36 Cost., essendo alterata in modo significativo la proporzione prevista fra il trattamento economico dei magistrati e l’attività svolta.

1.4.3.— Il rimettente, inoltre, ritiene che la decurtazione in esame, in quanto avente natura sostanzialmente tributaria, contrasterebbe con gli artt. 23 e 53 della Costituzione, in quanto riguarderebbe unicamente, o quasi, la categoria dei magistrati, alterando il principio di progressività delle imposte, con un’evidente disparità di trattamento rispetto agli alti dirigenti dello Stato e delle Aziende pubbliche.

Tanto varrebbe, a maggior ragione, per il contributo straordinario di cui all’art. 9, comma 2, per gli stipendi superiori ai 90.000 euro annui; esso riguarderebbe quasi unicamente i magistrati e da cui sarebbero esenti, non solo i dipendenti privati e gli autonomi, ma anche altri dipendenti pubblici, che godrebbero di una diversa struttura retributiva.

1.5.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione I, con ordinanza del 15 novembre 2011, iscritta al reg. ord. n. 11 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 2 e 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente censura l’art. 9, comma 22, per le identiche motivazioni contenute nelle ordinanze iscritte al reg. ord. n. 219 e n. 248 del 2011. In particolare, richiamando la giurisprudenza costituzionale in materia, assume che le norme impugnate si pongono in contraddizione con il principio (desumibile dall’art. 104, primo comma, Cost.), secondo cui il trattamento economico dei magistrati non può ritenersi nella libera disponibilità del potere legislativo o del potere esecutivo, trattandosi di un aspetto essenziale per attuare il precetto costituzionale dell’indipendenza. Il legislatore avrebbe operato un indebito condizionamento dell’esercizio della funzione magistratuale, mettendo a rischio il credito e quel prestigio di cui la magistratura dovrebbe godere presso la comunità dei cittadini.

Quanto, in particolare, all’indennità giudiziaria, trattandosi di una componente “normale” del trattamento economico, sebbene introdotta a titolo “speciale” (in quanto preordinata a compensare i magistrati degli «oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività»), la sua riduzione la renderebbe inequivocabilmente inidonea allo scopo per il quale era stata istituita, in violazione anche del principio di ragionevolezza.

L’ordinanza in questione, inoltre, ripercorre, in modo in larga parte coincidente, le censure relative alla violazione degli artt. 3 e 36 esposte dalla ordinanza n. 20 del 2012, con riguardo all’indennità giudiziaria, aggiungendo che, colpendo in misura maggiore i magistrati all’inizio della carriera, conterrebbe in sé anche un effetto discriminatorio, in violazione dell’art. 3 Cost.

1.6.— Anche il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, con ordinanza del 14 dicembre 2011, iscritta al reg. ord. n. 12 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 36, 53, 97, 101, 104, 108 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 21, primo periodo, e 22 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, in un giudizio relativo anche in questo caso a ricorsi proposti da magistrati ordinari, in relazione alle decurtazioni stipendiali subite.

Il rimettente premette di aver respinto la domanda incidentale di misure cautelari e di aver disposto adempimenti istruttori a carico dell’Amministrazione finanziaria, di quella della giustizia e dell’INPDAP, che hanno risposto con note pervenute rispettivamente in data 2 agosto, 21 giugno e 12 agosto 2011.

1.6.1.— Dopo aver proceduto ad una ricostruzione del quadro normativo in cui si colloca il contenzioso, il Tribunale amministrativo illustra le modalità con le quali l’amministrazione finanziaria ha applicato le norme in questione, come riferite dalle amministrazioni in sede istruttoria.

All’esito dell’attività istruttoria, il TAR ritiene infondata la prima pretesa dei ricorrenti, per l’accertamento della «intollerabile incertezza circa le sorti del trattamento economico dei magistrati», causato dal comma 22, che non sarebbe idoneo a definire il suo campo di applicazione a causa dell’indeterminatezza dei termini “acconti” e “conguagli”.

1.6.2.— Ciò posto, dopo aver motivato in ordine alla rilevanza, in virtù dell’effettiva incidenza sugli stipendi dei ricorrenti, solleva, in primo luogo, questione di legittimità costituzionale del comma 21, primo periodo, e del comma 22, relativamente al mancato adeguamento, per violazione dell’art. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, in quanto il trattamento economico dei magistrati, assistito da “certezza” e da “continuità” a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, non sarebbe nella libera disponibilità del Potere legislativo o del Potere esecutivo e non potrebbe essere soggetto a irrazionali, sbilanciate, sperequative e sostanzialmente inutili decurtazioni, le quali, in quanto tali, si presenterebbero comunque distoniche alla luce dei menzionati principi, che costituiscono presupposto e requisito essenziale di ogni giusto processo di cui agli artt. 24, 101 e 111 della Costituzione.

Peraltro, a giudizio del rimettente, le decurtazioni in parola non avrebbero tenuto conto della giurisprudenza della Corte, in relazione alla necessità che simili interventi debbano essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso» (cfr., sentenza n. 245 del 1997 e ordinanza n. 299 del 1999). La manovra in questione sarebbe, invece, solo apparentemente temporanea, secondo una logica perennemente emergenziale non incidente su alcun problema strutturale e culturale del «sistema Italia», come «le percussive ed ancora contingenti» manovre successive avrebbero dimostrato.

Le norme in questione vengono, inoltre, censurate con riferimento all’art. 36 della Costituzione, in quanto la retribuzione dei magistrati, stabilita con legge formale ed aggiornata, solo per relationem, sarebbe correlata non solo alla generica quantità e qualità delle funzioni ma anche al ruolo istituzionale e costituzionale svolto, sicchè colpendo i meccanismi automatici di adeguamento si inciderebbe sull’adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione, rispetto alle specifiche funzioni di rilievo costituzionale, delle quali il legislatore ha tenuto conto nel delineare i corrispondenti meccanismi retributivi.

1.6.3.— Con riguardo alla decurtazione dell’indennità giudiziaria, il TAR trentino censura l’apparato normativo utilizzando le medesime argomentazioni impiegate per l’adeguamento, che ricalcano, peraltro, in larga misura quanto già riportato sinteticamente in relazione alle altre ordinanze. Tale indennità, che dovrebbe compensare gli oneri che i magistrati incontrano, anche in considerazione di un modello di lavoro “domestico”, in cui l’amministrazione non mette a disposizione sufficienti mezzi ed uffici in cui svolgere l’attività istituzionale, perderebbe irragionevolmente, attraverso la sua riduzione progressiva, il ruolo originario.

Inoltre, viene prospettata anche la violazione dell’art. 36 della Costituzione, che impone sia l’obbligo di rispettare la proporzionalità tra la retribuzione e il livello quali-quantitativo del lavoro prestato, che il correlato divieto di diminuire lo stipendio se non in conseguenza della diminuzione delle prestazioni richieste.

Infine, il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale anche con riferimento alla violazione dell’art. 53 Cost., in quanto si tratterebbe di un vero e proprio prelievo forzoso di somme stipendiali ed indennitarie a copertura di fabbisogni finanziari indifferenziati dello Stato apparato, non correlato ad alcuna “capacità contributiva”. Non si tratterebbe, infatti, di un elemento di arricchimento della sfera del singolo, ma di un semplice ristoro o rimborso compensativo di oneri che il magistrato deve necessariamente sostenere, non rivelatore, dunque, di ricchezza statica o dinamica (patrimonio o reddito).

1.6.4.— La norma viene, poi, complessivamente censurata con riferimento alla violazione dell’art. 97, primo comma, della Costituzione, poiché la manovra in questione avrebbe avuto riflessi negativi sul buon andamento degli uffici dell’Amministrazione della giustizia. Le gravose misure finanziarie avrebbero, in primo luogo, contribuito a determinare un “massiccio esodo” di personale dalla magistratura, provocando in tal modo una repentina perdita non solo di un ragguardevole numero dei giudici, ma anche di un inestimabile bagaglio di conoscenze e di esperienze, determinando nel contempo un aggravio di lavoro sui giudici rimasti. Inoltre, avrebbe influito sul buon andamento inteso come «regola di svolgimento della funzione», il cui rispetto sarebbe assicurato da tutti gli strumenti di garanzia apprestati dalla complessiva organizzazione dell’Amministrazione della giustizia, fra i quali rientrerebbero anche le condizioni di serenità e di stabilità delle proprie condizioni economiche, senza dover sopportare addirittura parte dei costi vivi del servizio.

1.6.5.— A giudizio del Tribunale amministrativo trentino, inoltre, la disciplina in questione, complessivamente considerata, violerebbe anche l’art. 3 della Costituzione per disparità di trattamento fra la categoria dei ricorrenti e quella dei pubblico impiego contrattualizzato. Osserva in proposito che, mentre per il triennio 2011-2013 i dipendenti pubblici non subiranno aumenti dello stipendio ma neppure decurtazioni, in quanto la loro retribuzione rimarrà complessivamente “cristallizzata” al trattamento dell’anno 2010, lo sblocco della contrattazione collettiva consentirà ad essi di recuperare, nelle misure stabilite in sede di trattativa sindacale, quanto sarebbe loro spettato nel periodo precedente. Diversamente, i magistrati, non potranno recuperare o vedersi riassegnate le decurtazioni, con l’ulteriore vincolo peraltro del “tetto” dell’acconto spettante per l’anno 2014 e del conguaglio per l’anno 2015. Conseguentemente vi sarebbe una palese disparità di trattamento fra pubblici dipendenti che hanno identica capacità economica da lavoro dipendente.

Un simile assetto normativo, inoltre, sarebbe irragionevole alla luce dell’orientamento della giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha considerato legittimo il blocco per un anno degli incrementi retributivi in conseguenza di automatismi stipendiali, collocando tuttavia tale intervento «in un ambito estremo», purché limitato nel tempo ad un solo anno e non «irrazionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini» (ordinanza n. 299 del 1999).

1.6.6.— Il rimettente dubita, poi, della legittimità costituzionale delle disposizioni impugnate anche per violazione del canone della ragionevolezza intrinseca, in considerazione del fatto che tali misure risulterebbero incoerenti rispetto al consolidato sistema retributivo della magistratura rispondente ai valori costituzionali già ricordati, e sarebbero sproporzionate, illogiche ed inadeguate in relazione agli effetti sostanzialmente irrisori dei prelievi sulla diminuzione della spesa pubblica. Tale irrazionalità dell’intervento celerebbe una ratio punitiva per l’intera magistratura, come dimostrato, peraltro dalla disposizione introdotta (dopo la proposizione del giudizio in oggetto e di altri analoghi presso vari TAR) dal comma 7 dell’art. 16 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui: «qualora, per qualsiasi ragione, inclusa l’emanazione di provvedimenti giurisdizionali diversi dalle decisioni della Corte costituzionale; non siano conseguiti gli effetti finanziari utili conseguenti, per ciascuno degli stessi anni 2011-2013, alle disposizioni di cui ai commi 2 e 22 dell’articolo 9 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, i medesimi effetti finanziari sono recuperati, con misure di carattere generale nell’anno immediatamente successivo nei riguardi delle stesse categorie di personale cui si applicano le predette disposizioni».

1.7.— Il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, sezione I, con ordinanza del 25 gennaio 2012, iscritta al reg. ord. n. 53 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104 e 108 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 2, 21 (ove occorra) e 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle ordinanza di rimessione dei TAR per il Veneto, Campania, Piemonte e Trento, e dopo aver premesso brevi cenni sull’intervento normativo censurato dai ricorrenti, ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’intervento complessivo.

Si tratterebbe, quanto all’adeguamento, di un intervento non ragionevole, in primo luogo, perché operato su di un trattamento retributivo strutturato con automatismi atti a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

In secondo luogo, perché aggredirebbe le retribuzioni, senza quella dimensione solidaristica determinata dalla ripartizione fra diverse categorie di cittadini, cui si riferiva l’ordinanza n. 299 del 1999.

Inoltre, i disposti blocchi stipendiali violerebbero l’art. 36 della Costituzione, vulnerando la proporzionalità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.

Con riferimento all’indennità giudiziaria, poi, il TAR sottolinea la violazione dell’art. 36 Cost. in quanto componente essenziale del trattamento retributivo, ovvero, l’art. 53, primo comma, Cost. qualora si ravvisasse nella medesima una prestazione di natura tributaria.

Ancora, viene censurato l’art. 9, comma 2, del più volte citato decreto-legge, che dispone il prelievo sulle somme eccedenti i 90.000 e 150.000 euro, in relazione alle retribuzioni del pubblico impiego. Tale disposizione violerebbe, secondo il rimettente, gli artt. 2, 3 e 53, Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini, dall’art. 2 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.

Infine, il prelievo tributario in questione, lederebbe anche, in maniera irragionevole in quanto intervento non strutturale, ma temporaneo, il legittimo affidamento sul proprio trattamento retributivo, in capo al pubblico dipendente che ha parametrato ad esso il proprio tenore di vita.

1.8.— Il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, sezione I, con ordinanza del 25 gennaio 2012, iscritta al reg. ord. n. 54 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 23, 36, 53, 97, 101 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 2, 21 (ove occorra) e 22, nonché dell’articolo 12, commi 7 e 10, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010.

1.8.1.— Il rimettente premette che il ricorrente, magistrato contabile in servizio dal 1985, ha chiesto l’accertamento del proprio diritto al trattamento retributivo nella sua interezza, senza le decurtazioni prodotte dalle norme di cui all’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, consistenti, a far tempo dall’anno 2011, in una decurtazione stipendiale di euro 8.671,64 per effetto della riduzione di spesa coattivamente operata dall’art. 9, comma 2, del predetto d.l. n. 78 del 2010; nel blocco per il triennio 2011-2013 dei meccanismi di adeguamento retributivo previsto dall’art. 9, comma 2; nella trattenuta della percentuale della indennità giudiziaria di cui alla legge n. 27 del 1981, pari ad euro 2.013,07 per l’anno 2011, euro 3.355,11 per l’anno 2012, euro 4.294,55 per l’anno 2013, in applicazione dell’art. 9, comma 22. Infine, il ricorrente assume che, al momento della cessazione del rapporto, il ricorrente subirà l’applicazione dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, che prevede la rateizzazione della corrispondente indennità, mentre fin da subito ne subisce gli effetti dannosi in conseguenza dell’applicazione del comma 10, che dispone la sostituzione dell’indennità di buonuscita con il meno favorevole trattamento di fine rapporto, pur perdurando sui dipendenti pubblici la trattenuta aggiuntiva del 2,50 sull’80% della retribuzione, in aggiunta all’aliquota, a tutti i lavoratori dipendenti applicabile, del 6,91% prevista dall’art. 2120 del codice civile. Sostiene, in relazione a tali illegittimi ed incostituzionali effetti negativi, l’eccesso di potere, l’ingiustizia manifesta e la violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 della Costituzione. Nel giudizio è intervenuto ad adiuvandum, Paolo Abbritti, magistrato ordinario in servizio presso la Procura della Repubblica di Perugia, con atto depositato successivamente all’ordinanza di rimessione.

1.8.2.— Il rimettente assume, in primo luogo, che la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sarebbe di intuitiva evidenza e discenderebbe dal fatto che le norme di cui ai commi 2 e 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 trovano applicazione dal primo gennaio del 2011, di modo che il ricorrente ha subito il mancato incremento del 3,04% della voce stipendio (corrispondente al secondo acconto spettante ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 giugno 2009), la riduzione dell’indennità giudiziaria, nel corso del 2011 nella misura del 15%, e dal corrente anno 2012 nella misura del 25%, oltre che la riduzione del trattamento economico complessivo, del 5% una volta superati i 90.000 euro annui lordi, e del 10% una volta superati i 150.000 euro.

Il TAR evidenzia, altresì, che la disciplina introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 incidente sul trattamento retributivo, non si limita alla disposizione del comma 22, specificamente rivolta al personale di magistratura, ma si sviluppa in via generale anche attraverso la misura di cui al comma 2 del medesimo corpus legislativo. In particolare, la manovra prevedrebbe che: a) per tutti i dipendenti pubblici (appartenenti alle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione) a decorrere dal 1º gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonchè del 10% per la parte eccedente 150.000 euro (comma 2); b) per i soli magistrati il blocco degli acconti per gli anni 2011/2013 e dei conguagli per il triennio 2010/2012 (comma 22, primo periodo); c) per i soli magistrati un “tetto” per l’acconto per l’anno 2014 che non può superare quello dell’anno 2010 ed un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, che sarà determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo, dunque, il triennio 2011/2013 (comma 22, primo periodo); d) per i soli magistrati la riduzione annualmente progressiva (15%, 25% e 32%), per il triennio 2011/2013, dell’indennità giudiziaria di cui alla legge n. 27 del 1981 (comma 22, secondo periodo).

Il TAR assume che le misure di contenimento in questione incidono significativamente sul trattamento economico dei magistrati, alterando «l’euritmia di un sistema che prevede un meccanismo automatico di determinazione dello stesso, regolato dalla legge ordinaria, al fine di assicurare l’autonomia e l’indipendenza dei giudici».

1.8.3.— Ciò posto, viene censurato, in primo luogo, il citato comma 22, per le medesime motivazioni di cui alle ordinanze TAR Trento, 14 dicembre 2011, n. 3107; TAR Campania, Salerno, 23 giugno 2011, n. 1162; TAR Piemonte, Sez. II, 28 luglio 2011, n. 846; TAR Veneto, Sez. I, 15 novembre 2011, n. 1685.

Il rimettente osserva che, pur non ignorando l’orientamento di questa Corte su pregresse manovre che disponevano il blocco degli incrementi retributivi dovuti ad automatismi stipendiali, quella medesima giurisprudenza avrebbe consentito l’imposizione di sacrifici eccezionali, soltanto a condizione che fossero ragionevolmente ripartiti tra diverse categorie di cittadini, oltre transeunti e idonei allo scopo prefisso (sentenza n. 245 del 1997 e ordinanza n. 299 del 1999).

Le disposizioni impugnate, invece, si inserirebbero in una manovra finanziaria priva di dimensione solidaristica, che colpisce pesantemente solamente l’impiego pubblico, senza tenere conto del fatto che ne rimarrebbero immuni (anche a seguito del c.d. decreto «salva-Italia» decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) «i soggetti che con le amministrazioni pubbliche intrattengono solamente un rapporto di servizio onorario, ovviamente tutt’altro che gratuito».

In relazione a ciò la disposizione viene censurata anche sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza e del principio solidaristico di cui agli artt. 3 e 2 della Costituzione, venendo discriminati in peius i magistrati, frustrando la loro legittima aspettativa all’ordinario sviluppo economico della carriera.

Allo stesso tempo, a giudizio del rimettente, il blocco dell’adeguamento automatico violerebbe anche il principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, sancito dall’art. 36 della Costituzione, determinando un taglio lineare delle retribuzioni a fronte di un carico di lavoro che, come noto, risulta progressivamente crescente, anche in considerazione della mancata copertura dei posti in organico.

1.8.4.— Quanto al taglio dell’indennità giudiziaria di cui all’art. 3 della legge n. 27 del 1981, il rimettente, ne deduce, in primo luogo, la violazione dell’art. 36 Cost., in quanto componente essenziale della retribuzione.

Inoltre, trattandosi di decurtazione di natura tributaria, in quanto consistente in una prestazione imposta, consistente nell’ablazione di somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico e nella loro destinazione allo scopo di apprestare mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente stesso (secondo la definizione delle sentenze 12 gennaio 1995, n. 11; 10 febbraio 1982, n. 26), la sua connotazione selettiva a danno dei magistrati, determinerebbe la violazione dell’art. 53, primo comma, Cost., che esprime il principio della generalità delle imposte, in ragione della capacità contributiva. Non solo, ma a giudizio del TAR per l’Umbria, vi sarebbe anche una violazione dell’art. 53, secondo comma, Cost. trattandosi di un tributo sostanzialmente regressivo.

1.8.5.— Il rimettente censura, altresì, l’art. 9, comma 2, il quale, piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale (melius, come una riduzione dei trattamenti economici), avrebbe natura tributaria, ricorrendone i due elementi fondamentali dell’imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, nonché della destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica.

Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53 della Costituzione, trattandosi di prelievo di natura tributaria, peraltro significativamente operato con progressivo raggiungimento di due differenti scaglioni (90.000 e 150.000 euro), cui si applicano aliquote crescenti, e colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero rientrano i magistrati), in contrasto con il principio della “universalità della imposizione”. L’imposta sarebbe, inoltre, discriminatoria, sia in relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale i dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di capacità economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”, risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati, come pure ai lavoratori autonomi, i quali, a parità di reddito, non subiscono alcuna incisione patrimoniale. Tale effetto discriminatorio sarebbe reso ancor più evidente dalla diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini, dall’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011.

Peraltro l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011 disporrebbe espressamente che «ai fini della verifica del superamento del limite di 300.000 euro rileva[no] anche il reddito di lavoro dipendente di cui all’art. 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, al lordo della riduzione ivi prevista», sicché il contributo di solidarietà si applicherebbe anche ai redditi complessivi che hanno già subito la decurtazione di cui all’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, seppure allorché raggiungano il superiore importo, senza che si verifichi una doppia imposizione.

1.8.6.— Il rimettente censura, infine, le modifiche apportate alla disciplina dell’indennità di buonuscita dall’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010.

Premette al riguardo, in primo luogo, la sussistenza della giurisdizione in tale materia, in quanto, pur essendo l’art. 6 della legge 20 marzo 1980, n. 75 (Proroga del termine previsto dall’art. 1 della L. 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’art. 6 della L. 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione), abrogato dall’art. 4, comma 1, numero 12, dell’allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo risulterebbe confermata dall’art. 133, comma 1, lettera i), dello stesso codice sulle «controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico». Sarebbe, infatti, indubbia, anche secondo la Corte di cassazione, l’inerenza della controversia sull’indennità di buonuscita ad un diritto attinente al rapporto di pubblico impiego (in questo senso si citano Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27304; 2 luglio 2008, n. 18038).

Nel merito, in virtù di quanto previsto dall’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, «con effetto sulle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2011», la disciplina della buonuscita dei magistrati verrebbe ad essere assoggetta al differente regime di cui all’art. 2120 del codice civile, concernente il trattamento di fine rapporto.

Tale innovazione, modificando peggiorativamente il trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici, ed in particolare dei magistrati, renderebbe dubbia la legittimità costituzionale del comma 7 dello stesso art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, che consente lo scaglionamento delle corresponsione dell’indennità (fino a tre importi annuali, a seconda dell’ammontare complessivo della prestazione), in quanto determinerebbe una perdita patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata previsione di interessi per la dilazione del pagamento, in deroga alla disciplina delle obbligazioni pecuniarie.

In relazione a ciò, una volta intervenuta la scelta del legislatore di prevedere un regime comune del trattamento di fine servizio applicabile a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sarebbe irragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo scaglionamento dell’indennità di buonuscita, determinandosi una violazione dell’art. 3 della Costituzione, nonché dell’art. 36, caratterizzandosi la buonuscita come “retribuzione differita”. Siffatto differimento, inoltre, a giudizio del rimettente avrebbe un aggiuntivo carattere di irragionevolezza per il personale di magistratura, il cui pensionamento è legato al compimento del settantacinquesimo anno di età, epoca che, «naturalmente oltre che statisticamente, abbrevia le prospettive di vita, e dunque anche di effettiva fruibilità di tale retribuzione differita».

Infine, viene censurato il comma 10 dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, in quanto la menzionata estensione del regime di cui all’art. 2120 cod. civ. (ai fini del computo dei trattamenti di fine servizio) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, con applicazione dell’aliquota del 6,91%, avrebbe dovuto comportare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, costituita dall’80% dello stipendio.

A giudizio del TAR, sebbene si possa sostenere che tale trattenuta, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, ai sensi dell’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), sia stata implicitamente abrogata dalla normativa successiva, tuttavia, secondo i consueti criteri ermeneutici, l’abrogazione tacita di una norma andrebbe dedotta dalla diretta incompatibilità logica, ossia dalla impossibilità di coesistenza della norma nuova con l’antica sullo stesso oggetto, per l’assoluta contraddittorietà delle due disposizioni, ovvero per il fatto che la nuova legge regola l’intera materia, anche se in modo non del tutto incompatibile con la singola norma precedente, e ciò perchè la disciplina complessiva importa il coordinarsi delle varie disposizioni di cui essa consta in un insieme unitario, che non tollera contaminazioni con norme logicamente ispirate a principi diversi (vengono citate: Cons. Stato, sez. IV, 5 luglio 1995, n. 538; sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330).

Nel caso di specie, in primo luogo, l’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 non conterrebbe una disciplina organica sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, che si sostituisca organicamente al d.P.R. n. 1032 del 1973. In secondo luogo, non potrebbe essere affermato, senza margine di incertezza, che tra le norme considerate sussista una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, o, per meglio dire, (tale che) dall’applicazione ed osservanza della nuova legge derivi necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (Cass., sez. I, 21 febbraio 2001, n. 2502; sez. lav., 1° ottobre 2002, n. 14129).

In assenza di antinomia tra le norme in esame, tale da escludere che l’applicazione dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 consenta anche una parallela applicazione della rivalsa nei confronti del dipendente, ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973 (in tale senso peraltro si orienterebbe l’INPDAP con la circolare n. 17 dell’8 ottobre 2010), sarebbe non manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità connesso all’applicazione in combinato disposto dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 con la rivalsa a carico del dipendente iscritto in misura pari al 2,50% della base contributiva, per violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione, consentendo allo Stato datore di lavoro una riduzione dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato.

1.9.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, sezione I, con ordinanza del 10 gennaio 2012, iscritta al reg. ord. n. 56 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104, 108 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle ordinanze di rimessione dei TAR per il Veneto, Campania, Piemonte e Trento, e dopo aver svolto brevi cenni sull’intervento normativo censurato dai ricorrenti, ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale del citato comma 22.

1.9.1.— L’ordinanza, in primo luogo, solleva questione di legittimità costituzionale con motivazione ed in relazione a parametri in larga parte coincidenti con quelli delle ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 53 e 54 del 2012, con riferimento agli artt. 3, 23, 53, 101, primo comma, 104, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU. In particolare, si tratterebbe di un intervento in contraddizione con le guarentigie apprestate dalla legge a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, funzionali a loro volta allo svolgimento imparziale ed obbiettivo della funzione giudicante ed in definitiva di un “giusto processo”, in adempimento degli obblighi convenzionali di cui al citato art. 6. In quanto poi, prestazione patrimoniale imposta di natura tributaria, sarebbero violati i principi di progressività e di generalità che informano il sistema tributario.

1.9.2.— Il TAR rimettente, aggiunge che le disposizioni di cui al comma 22 dell’art. 9 cit., sia nella parte in cui incidono sull’adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati, sia in ordine alla riduzione progressiva dell’indennità giudiziaria, violerebbero il principio costituzionale di tutela dell’affidamento ingenerato dai comportamenti del legislatore, del principio costituzionale di leale collaborazione tra i poteri dello Stato, il principio di ragionevolezza e di uguaglianza di fronte alla legge di cui all’art. 3 Cost.

In particolare, in materia di retribuzione dei magistrati, in assenza di una espressa disposizione costituzionale, il riferimento principe sarebbe costituito dall’ampia riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario, prevista dall’art. 108, primo comma, Cost.

La tendenziale attribuzione al legislatore di tale materia avrebbe, poi, determinato la sottrazione del trattamento economico dei magistrati alle procedure di contrattazione collettiva o di categoria, in ossequio al principio per cui occorre evitare che i magistrati siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri (sentenza n. 1 del 1978).

Tuttavia, il potere di iniziativa unilaterale del legislatore in tema di trattamento economico dei magistrati, avrebbe dovuto essere svolto nel rispetto del principio di affidamento e del principio di leale collaborazione tra poteri costituzionalmente rilevanti.

In tale contesto, sussisterebbe una situazione giuridica di affidamento tutelabile dei magistrati, quantomeno nel senso della esistenza di aspettative generate dai precedenti comportamenti del legislatore. Il principio di tutela dell’affidamento, a sua volta, mentre sul piano della concreta disciplina legislativa avrebbe dovuto svolgersi mediante il ragionevole bilanciamento tra opposte esigenze costituzionali (indipendenza ed autonomia dei giudici e compatibilità con gli equilibri della finanza pubblica), non potrebbe non riflettersi anche sul piano procedimentale attraverso la previsione di una idonea fase del procedimento legislativo che preveda l’interlocuzione delle rappresentanze dei magistrati, che corrisponderebbe alla effettiva natura di legge-provvedimento non solo, per quanto qui rileva, dell’art. 9, comma 22, ma in generale delle disposizioni legislative che abbiano come oggetto la concreta disciplina del trattamento economico di una circoscritta categoria di lavoratori quali i magistrati.

La diversa soluzione adottata dal legislatore in questo caso determinerebbe, altresì, la violazione dell’art. 3 Cost. sotto i due profili della violazione del principio di ragionevolezza e della violazione della parità di trattamento rispetto ad altre categorie di lavoratori, le quali sono protette dal contratto contro eventuali modificazioni in peius da parte dei datori di lavoro.

1.10.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, sezione I, con due ordinanze del 10 gennaio 2012, iscritte al reg. ord. nn. 63 e 94 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104, 108 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle ordinanze di rimessione dei TAR per il Veneto, Campania e Piemonte, e dopo aver enunciato brevi cenni sull’intervento normativo censurato dai ricorrenti, ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale del citato comma 22.

Le due ordinanze sollevano questione di legittimità costituzionale con motivazione ed in relazione a parametri in larga parte coincidenti con quelli delle ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 20, 53 e 54 del 2012, con riferimento agli artt. 3, 23 e 53, 101, primo comma, 104, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU. Si tratterebbe di un intervento in contraddizione con i principi di autonomia ed indipendenza della magistratura, funzionali a loro volta allo svolgimento imparziale ed obbiettivo della funzione giudicante ed in definitiva di un “giusto processo”. Censura avvalorata, anche per il TAR Liguria, dai principi espressi dalla c.d. «Magna Carta dei Giudici» approvata dal CCJE, nonché dalla coeva Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Comitato dei Ministri agli Stati membri. Trattandosi poi, di prestazione patrimoniale imposta di natura tributaria, sarebbero violati i principi di progressività e di generalità.

Anche in questo caso, i rimettenti sottolineano la ratio punitiva delle misure in contestazione e ne evocano l’intrinseca irragionevolezza, anche in considerazione del fatto che la recente riforma organica della magistratura realizzata nel 2006, ha disposto che alle periodiche valutazioni di professionalità possa conseguire in ipotesi di apprezzamento negativo la perdita del diritto all’aumento periodico di stipendio per un biennio. In tale contesto il blocco indiscriminato nei confronti di tutti gli appartenenti alla magistratura realizzerebbe, a giudizio del TAR, l’effetto di una valutazione negativa di professionalità globale e complessiva, in spregio ai più fondamentali canoni dell’agire legislativo, rendendo manifesto «l’attentato ai valori di indipendenza della magistratura». Del resto, l’intento punitivo sarebbe avvalorato dall’art. 16, comma 7, del d.l. n. 98 del 2011, richiamato anche nelle altre ordinanze.

In definitiva, i rimettenti, con motivazioni coincidenti con le ordinanze n. 20 e n. 56 del 2012, assumono che le norme censurate avrebbero operato una compressione dei valori costituzionalmente garantiti dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura in una maniera del tutto irrazionale, sproporzionata e discriminatoria, con particolare riferimento ai profili della disparità di trattamento, della irrazionalità “quantitativa” del taglio, irrazionalità “interna” alle misure, alterazione del rapporto di proporzionalità tra prestazione e retribuzione.

1.11.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 1° febbraio 2012, iscritta al reg. ord. n. 74 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 2, 21, primo periodo, 22, primo, secondo e terzo periodo, nonché dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente premette che i ricorrenti, tutti magistrati amministrativi, si dolgono delle illegittime decurtazioni del trattamento retributivo previste dal d.l. n. 78 del 2010, in particolare dall’art. 9, commi 2, 21, 22 e dall’art. 12, comma 7, in relazione alle differenti anzianità di servizio.

1.11.1.— Seguendo l’ordine di prospettazione delle parti, il TAR per la Calabria, dubita della legittimità costituzionale, in primo luogo, dell’art. 9, comma 2, secondo cui i trattamenti economici ivi indicati, sono ridotti del 5% per la parte eccedente i 90.000 euro lordi e del 10%, per la parte eccedente i 150.000 euro.

In via principale, il rimettente sostiene che, attesa la natura tributaria della norma, sarebbero violati gli artt. 2, 3 e 53 Cost., con particolare riferimento ai principi di proporzionalità e progressività dell’imposizione.

Ciò posto, ed affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda inerente le decurtazioni del trattamento economico aventi natura tributaria, ai sensi dell’art. 133, lettera i), del codice del processo amministrativo, il rimettente assume, in primo luogo, che il prelievo sarebbe disposto esclusivamente in danno di una ben definita categoria socio-economica, i lavoratori dipendenti del settore pubblico, ivi inclusi i magistrati, laddove, utilizzando il termine “tutti”, la disposizione costituzionale individuerebbe tutta la platea dei contribuenti da assoggettare al prelievo fiscale. Non varrebbe osservare, in contrario, che i magistrati e/o i dipendenti pubblici sarebbero titolari di cespiti economici adeguati al prelievo, in quanto in possesso di una condizione lavorativa connotata da “stabilità”, trattandosi di un argomento politico o comunque ideologico, ma non certamente giuridico. Inoltre, anche all’interno della medesima categoria dei magistrati, la norma conterrebbe aspetti sperequativi e regressivi, perché, prescinderebbe dalla considerazione dell’eventuale sussistenza di ulteriori proventi.

1.11.2.— In via subordinata, prosegue il rimettente, anche non riconoscendo alla norma natura tributaria (soluzione questa preferita dal collegio), sussisterebbero comunque i menzionati profili di illegittimità costituzionale.

La disposizione, infatti, rideterminando, in senso ablativo, un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente come diritto soggettivo, inciderebbe sullo status economico dei lavoratori (anche appartenenti alla magistratura) alterando quel sinallagma che è il proprium dei rapporti di durata ed in particolare proprio dei rapporti di lavoro. Sebbene, infatti non sia interdetto al legislatore di emanare disposizioni atte a modificare in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata, queste non potrebbero trasmodare in un regolamento irrazionale (Corte costituzionale, sentenza n. 446 del 2002; ordinanza n. 327 del 2001; sentenze n. 282 e n. 264 del 2005, n. 393 del 2000, n. 416 del 1999), in violazione, non solo dell’art. 3, ma anche dell’art. 2 e 36 della Costituzione. Ciò, in quanto la novazione oggettiva ed unilaterale del rapporto di lavoro, realizzata dal d.l. n. 78 del 2010, oltre a tradursi nel grave scardinamento del principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione, sacrificherebbe la stessa dignità sociale della persona-lavoratore, che si trova soggetto, senza possibilità di difesa, ad aggressioni patrimoniali arbitrarie non solo nelle modalità del prelievo, ma nello stesso presupposto, perché a determinarlo è lo stesso soggetto (Stato) che opera il prelievo, avvalendosi della forza derivante dall’essere ad un tempo datore di lavoro e legislatore.

1.11.3.— Inoltre, ancora nel caso in cui non si riconoscesse alla norma natura tributaria, secondo il rimettente la disposizione violerebbe gli artt. 42 e 97 Cost., per lesione dei principi costituzionali in materia di ablazione reale e dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione.

Se la norma non avesse una natura tributaria, sarebbe incontestabile la sua natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità. In tal senso, infatti, non potrebbe dubitarsi del fatto che il fenomeno espropriativo possa astrattamente colpire anche beni mobili fungibili, quali il denaro (nella specie, gli stipendi pubblici), sicchè si tratterebbe altresì di una norma-provvedimento, con conseguente violazione dell’art. 97 Cost., avendo tale norma mutuato la natura del provvedimento, elidendone la fase del procedimento, deputata, fra l’altro alla partecipazione degli interessati, al fine di interloquire sulla legittimità e sull’opportunità delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il loro sacrificio.

1.11.4.— Sotto ulteriore profilo, poi, il TAR per la Calabria, deduce la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., indipendentemente dalla natura tributaria o non tributaria della norma, in quanto l’aver attribuito la parte predominante dello sforzo “contributivo” ad una minore retribuzione dei dipendenti pubblici, e tra essi dei magistrati, introdurrebbe “forti discriminazioni”, per le seguenti ragioni: il prelievo riguarderebbe ingiustificatamente una categoria di sicura “tassabilità”, trascurando del tutto di colpire le ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben conosciute, soltanto perché misura più spendibile con l’opinione pubblica e perché comodamente qualificabile come “riduzione di spesa”. In questo senso il rimettente sottolinea, altresì, che sarebbe consentito al legislatore stabilire una diminuzione delle retribuzioni dei magistrati, ma attraverso uno strumento specifico destinato a novellare organicamente e razionalmente l’intera disciplina di settore, regolando “a monte” la modalità ed i presupposti, con appositi moduli di procedura da osservarsi per il caso di eventi eccezionali, che impongano il coinvolgimento della categoria nello sforzo collettivo di risanamento dei conti pubblici.

La dedotta discriminazione peraltro contrasterebbe anche con “orientamenti di matrice comunitaria” (recte europea), con riguardo al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella «Raccomandazione CM/Rec (2010)».

L’irragionevolezza dell’intervento, ancora sarebbe evidenziata anche dal fatto che sull’importo “tagliato” del 5% o del 10% sarebbe applicata la ritenuta previdenziale (ex Circolare n. 12 del 15 aprile 2011), sicchè l’importo così risultante, si riverbererebbe interamente sulla retribuzione netta, diminuendone l’ammontare, con conseguenze assurde ed inopinate, poichè prescriverebbe un prelievo contributivo applicato ad una retribuzione meramente “figurativa” e non reale.

1.11.5.— Il rimettente ritiene, altresì, che, mediante uno strumento che formalmente incide (solo) sulla retribuzione dei magistrati, verrebbe ad operare un indebito condizionamento dell’esercizio della funzione giurisdizionale, poichè si costringerebbe l’ordine di appartenenza ad un confronto con i pubblici poteri al fine di ripristinare le condizioni economiche originarie, o quantomeno di elidere o attenuare le conseguenze negative della misura disposta in violazione dei valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere dello Stato, in particolare con riferimento ai magistrati amministrativi, di cui la Costituzione delinea l’attività di consulenza giuridico-amministrativa (spettante in via esclusiva al Consiglio di Stato), e di «tutela della giustizia nell’amministrazione».

1.11.6.— Con riguardo ai commi 21 e 22 dell’art. 9 il TAR ne deduce la violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 Cost., con motivazioni in larga parte coincidenti con quelle sottese alle ordinanze di rimessione iscritte al reg. ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 53, 54 e 63 del 2012.

Quanto in particolare all’indennità giudiziaria, sarebbe evidente l’irrazionalità derivante dalla previsione di un progressivo accrescimento nel tempo del taglio in questione. Sebbene una simile progressione possa spiegarsi con la necessità di tener conto delle promozioni nel triennio, anche tale giustificazione, non presente nella legge, sarebbe del tutto illogica ed incoerente con il sistema.

Nello stesso senso, il ricorrente, conclude che neppure la motivazione della “crisi economica” sia adeguata a spiegare la ratio dei tagli crescenti, in quanto la norma dovrebbe consentire un risparmio immediato con progressiva mitigazione/riduzione del “taglio” fino a quando la crisi verrà superata. Del resto, anche a ritenere che l’invocazione della “crisi” costituisca l’effettiva motivazione della manovra non dovrebbe trascurarsi la “diversa sensibilità maturata in ambito europeo”, nell’ambito della quale andrebbe collocata la sentenza del 24 novembre 2010 della Corte di giustizia UE (C-40/10), la quale ha annullato le disposizioni del regolamento 1296/2009 UE, che avevano ridotto l’adeguamento automatico annuale al costo della vita degli stipendi dei funzionari UE, abbattendolo dal 3,7% all’1,85%, ritenendo che la pur nota situazione di crisi economica non potesse essere posta a fondamento di poteri “eccezionali” del Consiglio.

Il TAR ripropone, poi, anche con riferimento ai commi 21 e 22, le censure già esposte in riferimento all’art. 9, comma 2, specificando con riferimento alla violazione dell’art. 36 Cost. che, nel caso della magistratura amministrativa la falcidia della retribuzione assumerebbe specifici aspetti paradossali, poiché la norma che dispone il taglio delle retribuzioni si colloca in un contesto di progressivo aumento del carico di lavoro richiesto dallo Stato datore di lavoro ai magistrati dei TAR e del Consiglio di Stato (con riguardo alle innovazioni introdotte dal codice del processo amministrativo).

1.11.7.— Infine, con riferimento al comma 7 dell’art. 12 («Interventi in materia previdenziale») il rimettente premette che la rilevanza della questione consisterebbe nel fatto che i ricorrenti subiranno con certezza assoluta l’applicazione delle disposizioni in argomento al momento della cessazione del rapporto, comunque ed in qualunque tempo essa avvenga.

A giudizio del TAR, disponendosi uno scaglionamento – in favore del solo datore di lavoro pubblico – dell’onere di corresponsione delle indennità, comunque denominate, di fine rapporto, si determinerebbe una diminuzione patrimoniale certa con la mancata corresponsione di interessi per la dilazione del pagamento ed una “profonda compromissione del rapporto”, in ragione della natura retributiva, sia pure differita di tali indennità.

In punto di non manifesta infondatezza, poi, vengono invocati gli artt. 2, 3, 24, 36, 53, 97, 101, 104, 104, 108, 111 e 113 Cost., per le medesime motivazioni afferenti all’art. 9, comma 2.

1.12.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 1° febbraio 2012, iscritta al reg. ord. n. 75 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103, 104, 108, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 21 e 22 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente premette che i ricorrenti, tutti magistrati ordinari, si dolgono delle illegittime decurtazioni del trattamento retributivo previste dal d.l. n. 78 del 2010, in particolare dall’art. 9, commi 21 e 22. Premette altresì che nella udienza è stata sollevata analoga questione, precisando che nel procedimento de quo la questione di legittimità sollevata concerne esclusivamente i commi 21 e 22 del citato art. 9.

1.13. — Il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione di Parma, con ordinanza del 22 febbraio 2012, iscritta al reg. ord. n. 76 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104 e 108 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 21 e 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle altre ordinanze di rimessione, essendo investito da ricorsi proposti da magistrati ordinari.

Ciò posto, il giudice a quo ripercorre sinteticamente le motivazioni in larga parte sottese alle altre ordinanze di rimessione, assumendo che le descritte misure, incidenti sugli automatismi e sull’indennità, violerebbero, realizzando un intervento discriminatorio, il principio di autonomia ed indipendenza della magistratura, determinando una ingiustificata assimilazione di situazioni diseguali, ponendosi altresì in contrasto con i principi di capacità contributiva e di progressività di cui all’art. 53 Cost.

1.14.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione quarta, con ordinanza dell’11 gennaio 2012, iscritta al reg. ord. n. 81 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 101 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 21 e 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.

Il giudice a quo colloca l’intervento in parola nell’ambito della necessità di adeguare le retribuzioni dei magistrati al deterioramento della situazione economica nazionale in modo più veloce rispetto alla riduzione che si avrebbe in via riflessa, come conseguenza del blocco delle retribuzioni del pubblico impiego (interventi analoghi sarebbero previsti anche dalla normativa comunitaria: Corte di giustizia, terza sezione, 24 novembre 2010, in causa C-40/10).

Ricorda ancora il TAR lombardo come la giurisprudenza costituzionale abbia affermato che norme di tale natura possono ritenersi non lesive del principio di cui all’art. 3 della Costituzione solo a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso. Pertanto, in punto di non manifesta infondatezza della questione, il rimettente procede, in primo luogo, ad un confronto con il trattamento riservato alla dirigenza pubblica privatizzata a parità di condizioni economiche e sociali, al fine di verificare la non arbitrarietà dell’intervento nei confronti dei magistrati, sotto forma di irrazionale riparto dei sacrifici fra categorie di cittadini.

L’esito di tale raffronto induce il giudice a quo a ritenere che mentre il personale di magistratura sarebbe soggetto ad una riduzione complessiva delle retribuzioni, l’impiego pubblico privatizzato sarebbe soggetto solo ad un blocco “temperato” delle dinamiche retributive, con conseguente arbitrarietà ed irrazionalità del riparto dei sacrifici tra categorie diverse di cittadini, oltre che in violazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Quanto, poi, alla decurtazione dell’indennità giudiziaria, in quanto prelievo di natura tributaria, violerebbe l’art. 53 della Costituzione, poiché non collegata alla capacità contributiva, trattandosi di indennità compensativa di spese strumentali.

In particolare, con riferimento al “tetto” per l’acconto dell’adeguamento per l’anno 2014 (che non può superare quello dell’anno 2010) ed al “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, che sarà determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo pertanto il triennio 2011-2013, il rimettente rileva che mediante questa disposizione i meccanismi di adeguamento retributivo riprenderebbero a decorrere come se il tempo non fosse decorso, determinando un effetto irreversibile. Tale intervento supererebbe i limiti temporali dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore nel triennio 2011-2013, con violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione. Sotto ulteriore profilo poi la previsione di effetti permanenti del blocco dell’adeguamento retributivo trasformerebbe l’intervento eccezionale in una vera e propria deroga al meccanismo medesimo, che violerebbe l’art. 36 della Costituzione.

2.— Nei giudizi di cui alle ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 219, 248 del 2011 e 20 del 2012, con identici atti, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo nel merito per l’infondatezza della questione.

L’Avvocatura dello Stato osserva, in primo luogo ed in via generale, che le misure contenute nella manovra economica 2010 sarebbero state necessitate dall’eccezionalità della situazione economica internazionale e dall’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea. In particolare l’intervento sul settore del pubblico impiego, avrebbe anticipato quanto successivamente espressamente chiesto con la lettera, in data 5 agosto 2011, della Banca centrale europea (BCE), a firma congiunta di Mario Draghi (Presidente designato) e di Jean-Claude Trichet (Presidente in carica), con la quale sarebbe stato esplicitamente indicato di «valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, (…) se necessario, riducendo gli stipendi». In tale contesto, l’intervento avrebbe dovuto necessariamente investire anche il personale di magistratura, attraverso misure che attengono direttamente al rapporto d’impiego e non all’esercizio delle funzioni istituzionali.

Il Presidente del Consiglio ricorda, poi, come l’intervento di finanza pubblica in questione non appaia dissimile dalla manovra del 1993 (art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 – Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali –, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438), rispetto alla quale la Corte costituzionale aveva dichiarato analoghe questioni manifestamente infondate (ordinanza n. 299 del 1999), in quanto non lesive.

Quanto alla decurtazione dell’indennità giudiziaria, la cui natura “componente del normale trattamento economico” sarebbe già stata affermata dalla Corte (sentenza n. 238 del 1990), la difesa dello Stato osserva che la sua introduzione sarebbe correlata al fatto che per il solo personale di magistratura, risulterebbero salvaguardati sia gli automatismi stipendiali sia gli effetti economici delle promozioni.

L’affermazione secondo cui tale riduzione della speciale indennità sarebbe una prestazione patrimoniale “di natura sostanzialmente tributaria” non sarebbe corretta, giacchè tutte le misure previste dal citato art. 9 sarebbero finalizzate a conseguire soltanto una riduzione di spesa di tutti gli apparati in cui si articola la pubblica amministrazione. Tale assunto sarebbe del resto confermato dal fatto che tale riduzione non opera ai fini previdenziali.

Inoltre, in relazione all’eccepita disparità di trattamento fra i magistrati, poiché colpiti tutti senza distinzione nello stesso ammontare, la tesi sarebbe smentita in relazione al fatto che i magistrati con retribuzioni meno elevate non subirebbero la misura della decurtazione percentuale prevista dal comma 2 del medesimo art. 9.

Quanto, invece, alla mancata erogazione per il triennio 2011-2013 dei miglioramenti economici previsti dalla legge n. 27 del 1981, in materia di adeguamento di diritto del trattamento economico, erroneamente definita come “decurtazione” e non, invece, come mancata crescita retributiva, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che la disposizione contestata si sarebbe limitata a prevedere che, a fronte del blocco triennale della contrattazione economica del pubblico impiego, altrettanto dovesse avvenire anche per la categoria dei magistrati.

2.1.— Nei giudizi di cui alle ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 46, 53, 54, 56, 63, 74 e 75 del 2012, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto, ripercorrendo pedissequamente le osservazioni già sintetizzate. Ha, inoltre, osservato, quanto alla violazione dell’art. 36, Cost., che andrebbe considerata la retribuzione nel suo complesso e non le singole sue componenti, tanto più che l’origine storica della speciale indennità sarebbe del tutto superata, avendone la Corte costituzionale riconosciuto la sua natura retributiva, onnicomprensiva. L’intervento in questione sarebbe poi stato imposto dalla necessità di compensare la mancata adozione del blocco degli automatismi stipendiali e delle progressioni di carriera previsto per altre categorie personale.

Infine, l’Avvocatura dello Stato osserva, quanto alla questione concernente il comma 2 del citato art. 9, che si tratterebbe di mera riduzione di spesa imposta dalla necessità di raggiungere gli obbiettivi di finanza pubblica prefissi, per fronteggiare l’eccezionalità della situazione economica internazionale, come sarebbe dimostrato dal fatto che tale riduzione non opererebbe ai fini previdenziali. Di conseguenza dovrebbe essere esclusa la natura tributaria della medesima.

Con specifico riferimento all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 54 del 2012 ed alla norma contenuta nell’art. 12, comma 10, l’Avvocatura generale dello Stato assume, quanto all’illegittimità del prelievo del 2,50% sull’80% della retribuzione, che la disciplina innovata non avrebbe modificato la natura dell’indennità di buonuscita. Il legislatore, già in passato (come nel caso della legge 8 agosto 1995 n. 335) avrebbe disciplinato il passaggio dal sistema di TFS a quello di TFR, stabilendo che la retribuzione del personale in TFR fosse ridotta di una ritenuta figurativa pari al contributo ex opera di previdenza. Conseguentemente, da una lettura sistematica delle norme vigenti, non deriverebbe il denunciato contrasto (come confermato dalla circolare INPDAP n. 17 del 2010 e dal parere del 21 dicembre 2011 del Dipartimento della Ragioneria dello Stato).

Nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 11 e 12 del 2012, non risulta intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

3.— In tutti i giudizi si sono costituite le parti private, chiedendo la riunione con le altre ordinanze sollevate da altre autorità giudiziarie e riservandosi ogni più ampia successiva deduzione.

Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012 è intervenuto Paolo Abbritti, interventore ad adiuvandum nel giudizio a quo, con atto depositato presso il TAR rimettente successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata ed, altresì, di «dichiarare l’illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 27 Cost. dell’art. 16 (comma 1, lettera b) e comma 7, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con L. 15 luglio 2011, n. 111, per contrasto con gli artt. 3, 101, 104 e 118 Cost.»

4.— In prossimità dell’udienza del 6 marzo 2012, fissata per la trattazione delle ordinanze reg. ord. nn. 219 e 248, prima del disposto rinvio a nuovo ruolo, l’Avvocatura dello Stato ha presentato ulteriore memoria, ribadendo le argomentazioni svolte in relazione a quei procedimenti e ricordando che analogo ricorso proposto innanzi al TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, è stato respinto con sentenza n. 1671/2011, in data 16 novembre 2011, depositata in data 28 novembre 2011.

A giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, le misure censurate atterrebbero direttamente al rapporto d’impiego e non all’esercizio delle funzioni istituzionali, con particolare riferimento al comma 22 dell’art. 9, che avrebbe determinato in concreto effetti significativamente meno incisivi rispetto all’intervento previsto per il restante personale in regime pubblicistico.

Viene, altresì, richiamata la circolare della Ragioneria generale dello Stato n. 12 del 15 aprile 2011, registrata alla Corte dei conti il 16 giugno 2011, quanto al bilanciamento fra gli automatismi stipendiali determinati da classi e scatti e la riduzione della speciale indennità di cui fruisce la categoria dei magistrati.

Con riferimento, poi, alla c.d. Magna Carta dei Giudici, l’Avvocatura ribadisce che essa non assumerebbe rilievo determinante, essendo priva ex se di valore cogente e, con riguardo agli artt. 23 e 53 della Costituzione, si ribadisce che l’intervento non avrebbe natura tributaria.

Inoltre, non sussisterebbe neppure una violazione dell’art. 36 Cost., in quanto, indipendentemente dalla natura “retributiva” o meno della indennità c.d. giudiziaria, quest’ultima costituirebbe parte integrante – perché componente fissa e continuativa –del trattamento economico, che andrebbe valutato nel suo complesso, quanto alla proporzionalità ed adeguatezza, tenuto conto peraltro, che «l’applicazione delle disposizioni di contenimento previste per il personale di magistratura, non impedisce l’evoluzione della relativa dinamica retributiva (classi e progressioni di carriera), salvaguardi gli effetti previdenziali delle riduzioni di cui ai commi 2 e 22 dell’articolo 9 (come già precisato sopra al punto 4) e si concretizzi (…) in misure di portata più limitata rispetto a quelle previste per altre categorie, per le quali gli interventi stabiliti dal comma 21 dello stesso art. 9 hanno effetti più incisivi e di carattere strutturale» (relazione della Ragioneria generale dello Stato).

Neppure, secondo l’Avvocatura, il blocco degli incrementi per un triennio dovuto all’esclusione di erogazione degli incrementi nascenti dal sistema di automatico adeguamento stipendiale violerebbe l’art. 36 Cost.: da un lato, perché esso non determinerebbe riduzioni stipendiali, ma solo esclusione di incrementi stipendiali; dall’altro, perché si tratterebbe di misura eccezionale, transeunte, consentanea a uno scopo e a una situazione che la rendono non arbitraria, ma ragionevole e rispondente al principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

Da ultimo, in riferimento alla violazione dell’art. 97 Cost., si esclude che tale parametro possa riferirsi anche all’esercizio dell’attività giurisdizionale.

5.— In prossimità dell’udienza del 6 marzo 2012, fissata per la trattazione delle ordinanze r.o. nn. 219 e 248, prima del disposto rinvio a nuovo ruolo, anche le parti ricorrenti hanno prodotto ulteriori memorie, ribadendo nel complesso le argomentazioni sottese agli atti introduttivi dei giudizi ed alle ordinanze di rimessione.

In particolare, viene contestata la tesi difensiva dell’Avvocatura, secondo cui la decurtazione dell’indennità speciale avrebbe la sola funzione di ristabilire l’eguaglianza tra il trattamento economico dei magistrati e quello delle altre categorie di personale “non contrattualizzato”, limitandosi a “compensare” i “vantaggi” derivanti, dalla mancata applicazione ai magistrati del “blocco” delle progressioni stipendiali “automatiche” (“classi” e “scatti” di stipendio) e degli effetti economici delle “progressioni di carriera” previsto, per tutte le altre categorie di personale “non contrattualizzato”, dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010.

L’argomento sarebbe, infatti, infondato: il mancato blocco degli “automatismi stipendiali” non rappresenterebbe affatto un particolare trattamento di favore riservato ai magistrati, ma la conseguenza del fatto che, solo per tale categoria, le progressioni stipendiali “automatiche” non esisterebbero più.

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della  legge 25 luglio 2005, n. 150), infatti, la progressione stipendiale dei magistrati non sarebbe più automatica, ma legata agli esiti delle valutazioni periodiche di professionalità, effettuate dal CSM su parere del Consiglio giudiziario, e che hanno ad oggetto la capacità, la laboriosità, la diligenza e l’impegno dimostrati dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni: l’eventuale esito negativo della valutazione “comporta la perdita del diritto all’aumento periodico di stipendio per un biennio” (art. 11, comma 12, del d.lgs n. 160  del 2006).

Dovrebbe poi escludersi che la decurtazione dell’indennità possa essere giustificata con l’esigenza di compensare il fatto che i magistrati, a differenza delle altre categorie di personale “non contrattualizzato”, sarebbero esenti dal blocco degli effetti economici delle “progressioni di carriera”. Della esenzione dal blocco degli effetti economici delle progressioni di carriera non si gioverebbero, infatti, tutti i magistrati, ma solamente coloro che, nel triennio 2011-2013, dovessero conseguire una simile progressione: ossia alla stregua dei dati forniti dall’Amministrazione, solo una esigua minoranza (circa il 20% – poco più di 700 per anno, nel triennio) del totale dei magistrati attualmente in servizio.

Sicché, nel corso del periodo di riferimento, la maggior parte dei magistrati, nel corso del triennio 2011-2013, vedrebbe ridursi il proprio trattamento economico complessivo.

Le parti ribadiscono, poi, che i meccanismi normativi che assistono le retribuzioni dei magistrati sarebbero tesi alla «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico» (sentenza n. 1 del 1978), «evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri» (sentenza n. 42 del 1993) e concretizzando «una guarentigia idonea a tale scopo» (sentenza n. 238 del 1990).

Quanto, poi all’indennità giudiziaria, si sostiene che essa sarebbe entrata a far parte in via ordinaria e normale del trattamento economico ad un titolo appunto “speciale” poiché diretta a consentire di far fronte «agli oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività», imparziale, indipendente e con «impegno senza precisi limiti temporali» (si citano le sentenze n. 479 del 2000, n. 238 del 1990 e n. 57 del 1990; nonché Cass. civ., sez. lav., 16 febbraio 2002, n. 2287).

La decurtazione operata, quindi, farebbe irragionevolmente gravare sui magistrati “oneri” specifici dell’organizzazione del loro lavoro, determinando anche la violazione degli artt. 23 e 53 Cost., in quanto non colpirebbe un “sintomo di arricchimento”, ossia un elemento di potenziamento della sfera economica, ma il mero recupero di “oneri” che il magistrato incontra nello svolgimento delle proprie funzioni.

6.— Il 12 giugno 2012 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di intervento nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 94 del 2012, riproponendo pedissequamente le argomentazioni a sostegno dell’infondatezza, già sintetizzate con riferimento agli altri atti di intervento.

6.1.— In prossimità dell’udienza del 3 luglio 2012 l’Avvocatura dello Stato ha depositato ulteriori memorie, con riferimento ai giudizi iscritti ai nn. 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 76 del reg. ord. 2012.

In tali atti, sostanzialmente identici, vengono ribadite le argomentazioni già spese a sostegno dell’infondatezza delle questioni.

In aggiunta alle già sintetizzate argomentazioni, l’Avvocatura dello Stato si sofferma anche sulle censure riguardanti l’art. 12, commi 7 e 10.

In particolare, quanto alla trattenuta del 2,50%, si evidenzia, richiamando la circolare INPS n. 17/2010, come la nuova disciplina non abbia mutato la natura del trattamento di fine servizio e, si sostiene che analogamente a quanto avvenuto nel passato, il complesso normativo risultante ha stabilito che la retribuzione del personale assoggettato a TFR sia ridotta “di una ritenuta figurativa pari al contributo ex opera previdenza”. Conclusivamente, dunque, il prelievo del 2,50% avrebbe natura di contributo solidaristico a favore dell’istituto previdenziale, che il legislatore avrebbe voluto mantenere. Del resto, osserva il Presidente del Consiglio dei ministri, la stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto la legittimità costituzionale di una simile disciplina, con riferimento ai lavoratori dipendenti della società Poste s.p.a., con la sentenza n. 259 del 2002.

In conclusione, l’Avvocatura, ribadisce che tutti gli interventi normativi censurati sarebbero giustificati dall’eccezionalità della situazione economica da affrontare e limitati nel tempo.

6.2.— In pari data, anche le parti private del giudizio hanno depositato memorie, in prossimità dell’udienza del 3 luglio 2012, ribadendo complessivamente le argomentazioni sottese alle ordinanze di rimessione. In aggiunta, si contesta che la riduzione dell’indennità speciale sia connessa in qualche modo al mantenimento del meccanismo automatico di progressione per classi e scatti. Tale assunto dell’Avvocatura sarebbe, infatti, smentito dal fatto che a seguito dell’art. 11 del d.lgs n. 160 del 2006 tale progressione non sarebbe affatto automatica, quanto piuttosto legata al procedere positivo delle valutazioni quadriennali di professionalità.

Considerato in diritto

1.— Sono sottoposte all’esame della Corte 15 ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 219, 248 del 2011; 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 75, 76, 81 e 94 del 2012), con le quali i TAR per la Campania, Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Trento, Umbria, Sardegna, Liguria, Calabria, Emilia-Romagna e Lombardia hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’articolo 9, commi 22 (tutte le ordinanze – alcune di esse indicando anche il comma 21), nonché del comma 2 (le sole ordinanze r.o. n. 46, 53, 54, 73, 74 e 75 del 2012); dell’articolo 12, comma 7 (le ordinanze r.o. nn. 54 e 74 del 2012); dell’articolo 12, comma 10 (la sola ordinanza r.o. n. 54 del 2012) del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 24, 36, 42, 53, 97, 100, 101, 104, 108, 111, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

1.1.— Le questioni hanno ad oggetto, in parte, le stesse norme, censurate con argomentazioni in larga misura coincidenti, e, quindi, va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.

2.— Tutte le ordinanze in esame, emesse nel corso di giudizi proposti da magistrati ordinari, contabili ed amministrativi, censurano, sotto diversi profili, l’art. 9, comma 22, del decreto-legge summenzionato (quelle iscritte al reg. ord. nn. 12, 53, 74 e 75 del 2012 in combinato con il comma 21); alcune di esse censurano anche il comma 2 dell’art. 9; le ordinanze nn. 54 e 74 del 2012 hanno ad oggetto anche l’art. 12, comma 7; infine, la sola ordinanza n. 54 dubita della legittimità costituzionale anche del comma 10 del medesimo articolo 12.

2.1.— I rimettenti premettono che la disciplina censurata si ricaverebbe dal complesso normativo dei commi 21 e 22 del d.l. n. 78 del 2010, in quanto per i magistrati, così come per tutte le altre categorie del personale non contrattualizzato, verrebbe introdotto un “blocco” dei “meccanismi di adeguamento retributivo” previsto dal primo periodo del comma 21, la cui operatività sarebbe estesa sia a livello di acconto che a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo) dal primo periodo dell’art. 22. Inoltre, ai soli magistrati verrebbe operata una riduzione crescente nel tempo dell’indennità giudiziaria e verrebbero introdotti, sempre in forza dell’art. 22, “tetti” all’acconto per l’anno 2014.

In relazione a tale disciplina, vengono, in primo luogo, sollevate questioni di legittimità costituzionale relative al complessivo intervento riguardante sia il cosiddetto “blocco degli adeguamenti”, sia la riduzione della speciale indennità di cui all’articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura).

In particolare, le ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 46, 53, 54, 56, 63, 76, 81 e 94 del 2012, assumono che la disciplina in questione contrasterebbe con l’art. 104, primo comma, della Costituzione, in quanto, rappresentando il c.d. adeguamento automatico un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei magistrati, diretto alla «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza», la misura adottata violerebbe il principio in virtù del quale il trattamento economico dei magistrati non sarebbe «nella libera disponibilità del potere legislativo» e dovrebbe non soltanto essere «adeguato» alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della Costituzione), ma anche va «certo e costante, e in generale non soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)».

Tale disciplina contrasterebbe, altresì, con gli artt. 3, 100, 101, 104 e 108, della Costituzione, in quanto realizzerebbe una irragionevole decurtazione del trattamento retributivo dei magistrati, il quale è caratterizzato da un automatismo legale, che si pone «come guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell’autonomia ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche sul piano economico», con la conseguenza che una simile manovra obbligherebbe il magistrato (come singolo o come Ordine) a rivendicazioni economiche verso i pubblici poteri.

Viene, inoltre, evocata (ordinanze r.o. nn. 54, 63 e 94 del 2012) la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., in quanto tali misure, intrinsecamente irragionevoli, sarebbero inserite in una manovra priva di dimensione solidaristica.

3.— A tutte queste censure che, come detto, riguardano il comma 22 complessivamente considerato, si aggiungono altri profili che specificano ulteriormente la prospettata illegittimità costituzionale, anche con riferimento al principio di tutela dell’affidamento ed all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria, necessario a garantire un processo giusto ed equo davanti ad un tribunale indipendente, come previsto dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

4.— Con specifico riferimento al meccanismo di blocco temporaneo degli adeguamenti stipendiali, i rimettenti, oltre a richiamare il nucleo fondamentale di censura costituito dalla asserita violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sostengono che la disciplina in esame non avrebbe tenuto conto della giurisprudenza di questa Corte, in relazione alla necessità che simili interventi debbano essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso».

5.— Con riguardo all’indennità giudiziaria prevista dall’art. 3 della legge n. 27 del 1981, a giudizio dei TAR rimettenti, le decurtazioni operate avrebbero tutte le caratteristiche elaborate dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie alcune entrate. In particolare, si tratterebbe di una prestazione doverosa, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, collegata alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.

Secondo i rimettenti, la qualificazione come mera riduzione di spesa non riuscirebbe ad escludere la reale natura tributaria delle misure.

Ciò posto, sarebbe evidente l’illegittimità dell’art. 9, comma 22 (ed anche della disposizione riguardante il “contributo di solidarietà” di cui al comma 2), in quanto il legislatore, a parità di capacità contributiva ed in violazione dell’art. 53 della Costituzione, avrebbe deciso di colpire, con misure continuative, solo una particolare e ristretta classe di contribuenti.

Sussisterebbe, dunque, la violazione degli artt. 3, 23 e 53 della Costituzione, in quanto, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata si concreterebbe in una prestazione patrimoniale imposta di natura sostanzialmente tributaria.

I rimettenti sostengono che sarebbe violato, altresì, l’art. 36 della Costituzione, poichè, essendo il trattamento economico del magistrato considerato adeguato solo in quanto integrato dalla indennità giudiziaria, la decurtazione di quest’ultima determinerebbe un’alterazione dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi, incidendo solo sull’aspetto quantitativo della retribuzione.

La misura violerebbe, inoltre, l’art. 3 della Costituzione, perché la riduzione percentuale di un’indennità fissa, destinata a compensare gli oneri del lavoro giudiziario, colpirebbe in modo maggiore i magistrati con minore anzianità di servizio, notoriamente impegnati in sedi disagiate con esposizione a rischi ed oneri spesso di fatto maggiori dei colleghi più anziani.

6.— I TAR per l’Abruzzo, Umbria e Calabria (reg. ord. nn. 46, 53, 54, 74 e 75 del 2012) impugnano, anche l’art. 9, comma 2, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, in relazione al taglio del trattamento economico complessivo oltre i 90.000 euro ed oltre i 150.000 euro.

I rimettenti assumono che tale intervento finanziario, piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale (melius, come una riduzione dei trattamenti economici), avrebbe natura tributaria.

Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53 della Costituzione, trattandosi di prelievo di natura tributaria, che colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero rientrano i magistrati), in contrasto con il principio della «universalità della imposizione». L’imposta sarebbe, inoltre, discriminatoria, sia in relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale i dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di capacità economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”, risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati. Tale effetto discriminatorio sarebbe ancor più evidente alla luce della diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini, dall’art. 2 del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.

7.— I TAR per l’Umbria e per la Calabria (reg. ord. nn. 54 e 74 del 2012) censurano anche il comma 7 dell’art. 12 del più volte citato d.l. n. 78 del 2010, che consentendo lo scaglionamento delle corresponsione dell’indennità (fino a tre importi annuali, a seconda dell’ammontare complessivo della prestazione), determinerebbe una perdita patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata previsione di interessi per la dilazione del pagamento, in deroga alla disciplina delle obbligazioni pecuniarie.

8.— Infine, il solo TAR per l’Umbria, con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 54 del 2012, censura il comma 10 dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, il quale dispone che sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, si applica l’aliquota del 6,91%, senza determinare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato). Il regime risultante violerebbe gli articoli 3 e 36 della Costituzione, in quanto la trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, produrrebbe una riduzione dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato.

9.— In via preliminare, con riferimento al giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, va dichiarata l’inammissibilità dell’atto di intervento ad adiuvandum spiegato da Abbritti Paolo, magistrato ordinario, intervenuto nel giudizio a quo con atto depositato solo successivamente all’ordinanza di rimessione e, quindi, allorché tale giudizio era stato già sospeso.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura» (per tutte, sentenze n. 304, n. 293 e n. 199 del 2011; n. 151 del 2009).

In applicazione di detto principio, poiché nel caso di specie, tenuto conto del tempo in cui è stato spiegato l’intervento nel giudizio principale e della mancata pronuncia sullo stesso da parte del TAR, non può ritenersi che Abbritti Paolo abbia assunto la qualità di parte nel processo a quo, l’intervento da questi spiegato nel giudizio davanti a questa Corte va dichiarato inammissibile (sentenza n. 220 del 2007 e ordinanza n. 393 del 2008).

9.1.— Ancora in via preliminare, con riferimento ai giudizi iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione avente ad oggetto l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010.

In particolare, il TAR per l’Abruzzo, dopo aver premesso che i ricorsi proposti riguardano le decurtazioni conseguenti all’applicazione dell’art. 9, comma 22, conclude affermando che le medesime censure enucleate con riguardo a tale ultima norma varrebbero, «a maggior ragione», per il prelievo disposto dal comma 2, in quanto incidente direttamente sul trattamento stipendiale dei ricorrenti.

Analogamente, il TAR per l’Umbria (reg. ord. n. 53 del 2012) premette che i ricorrenti si dolgono del mancato adeguamento automatico delle proprie retribuzioni, nonché della decurtazione subita dall’indennità giudiziaria ad essi spettante. Prosegue, altresì, affermando come risulti rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 e, tuttavia, procede in conclusione ad impugnare anche la norma contenuta nel citato comma 2, relativa alla riduzione del trattamento economico complessivo superiore a 90.000 euro ed a 150.000 euro.

In entrambi i casi, poiché tale profilo del trattamento economico non aveva fatto parte dei motivi di ricorso delle parti del giudizio, la questione di legittimità costituzionale risulta manifestamente inammissibile, in quanto sollevata in relazione ad una norma di cui il giudice rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo (ex pluribus ordinanze n. 256 del 2009 e n. 265 del 2008).

10.— Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento alle questioni sollevate dalle ordinanze dei TAR per l’Umbria e per la Calabria, aventi ad oggetto l’art. 12, comma 7, inerenti alle modalità di corresponsione dell’indennità di buonuscita.

In particolare, secondo i giudici a quibus, la questione sarebbe rilevante poiché detta norma dovrà essere sicuramente applicata all’atto di cessazione dal servizio dei ricorrenti, comunque ed in qualsiasi tempo avvenga. Tuttavia, nessuno dei rimettenti riferisce di essere investito di una domanda da parte di un magistrato in quiescenza, per qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, che abbia subito gli effetti della norma. L’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende evidente come i rimettenti non debbano fare applicazione della norma impugnata. Inoltre, neppure risulta individuato alcun immediato pregiudizio subito dai magistrati in servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per anzianità di servizio, ovvero per dimissioni.

Anche tale questione va, pertanto, dichiarata manifestamente inammissibile.

11.— Nel merito, le questioni relative all’art. 9, comma 22, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevate con riferimento alla violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sono fondate.

11.1.— La norma stabilisce che, per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981, «non [siano] erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012»; e che «per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 [sia] pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 [venga] determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014». Infine, il medesimo comma dispone che nei confronti del predetto personale non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 21, secondo e terzo periodo.

11.2.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati ordinari, nonché dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della giustizia militare e degli Avvocati e Procuratori dello Stato è stabilito dagli artt. 11 e 12 della legge 2 aprile 1979, n. 97 (Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato), come sostituiti dall’art. 2 della citata legge n. 27 del 1981. Tali norme dispongono che gli stipendi dei magistrati sono adeguati automaticamente ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi delle voci retributive, esclusa l’indennità integrativa speciale, ottenuti dagli altri pubblici dipendenti (appartenenti alle amministrazioni statali, alle aziende autonome dello Stato, università, regioni, provincie e comuni, ospedali ed enti di previdenza). La percentuale viene calcolata dall’Istituto centrale di statistica rapportando il complesso del trattamento economico medio per unità corrisposto nell’ultimo anno del triennio di riferimento al trattamento economico medio dell’ultimo anno del triennio precedente, ed ha effetto dal 1° gennaio successivo a quello di riferimento. La determinazione di tale percentuale è poi disposta entro il 30 aprile del primo anno di ogni triennio con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro della giustizia e con quello dell’economia e delle finanze. Sulla base di questo provvedimento, gli stipendi al 1° gennaio del secondo e del terzo anno di ogni triennio sono aumentati, a titolo di acconto sull’adeguamento triennale, per ciascun anno e con riferimento sempre allo stipendio in vigore al 1° gennaio del primo anno, per il 30 per cento della variazione percentuale verificatasi fra le retribuzioni dei dipendenti pubblici nel triennio precedente, con conseguente conguaglio a decorrere dal 1° gennaio del triennio successivo.

11.3.— Posta questa premessa, va osservato che, nonostante l’imprecisione della normativa denunciata, la quale considera come anno di acconto il 2012, correttamente i rimettenti hanno ritenuto che tale disciplina non possa ingenerare dubbi in relazione alle modalità della sua applicazione, trattandosi comunque di un blocco della corresponsione di somme, indipendentemente dal fatto che esse siano dovute a titolo di acconto o di conguaglio.

11.4.— Nel merito, va ricordato che questa Corte, nel decidere questioni concernenti norme aventi ad oggetto la retribuzione e la disciplina dell’adeguamento retributivo dei magistrati, anche e soprattutto in riferimento a misure economico-finanziarie che ne hanno ritardato o comunque disciplinato gli effetti nel tempo, ha affermato, in generale, che l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante «l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico» (sentenza n. 1 del 1978).

La sentenza n. 238 del 1990 ha delineato la funzione dell’adeguamento triennale e dei meccanismi rivalutativi della retribuzione dei magistrati, affermando che, «In attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il legislatore ha col citato art. 2 predisposto un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati che, in quanto configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo».

Successivamente, la sentenza n. 42 del 1993 ha ribadito che il sistema di adeguamento automatico è caratterizzato dalla garanzia di un aumento periodico delle retribuzioni, che viene assicurato per legge, sulla base di un meccanismo che costituisce un «elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni» la cui ratio consiste nella «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri». La Corte, in quella occasione, ha altresì ribadito che il meccanismo di cui all’art. 2 «in quanto configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo». Lo stesso principio è stato ancora di recente enunciato in relazione alla disciplina dell’indennità di funzione (ordinanze n. 137 e n. 346 del 2008).

Secondo una univoca giurisprudenza costituzionale, pertanto, sussiste un collegamento fra tale disciplina ed i precetti costituzionali summenzionati, nel senso della imprescindibilità dell’esistenza di un meccanismo, sia pure non a contenuto costituzionalmente imposto, che svincoli la progressione stipendiale da una contrattazione e, comunque, in modo da evitare il mero arbitrio di un potere sull’altro. Va aggiunto, poi, che siffatti principi sono confortati dai lavori preparatori della Costituente, dai quali traspare che l’omessa indicazione specifica dell’indipendenza economica delle magistrature non ha significato l’esclusione di tale aspetto dal complesso di condizioni necessario per realizzare l’autonomia ed indipendenza delle stesse (resoconti dei lavori dell’Assemblea 6 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 20 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 26 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 7 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 13 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 14 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 21 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 11 novembre 1947, nella seduta pomeridiana).

La specificità di tale disciplina costituisce, peraltro, anche conseguenza del fatto che la magistratura, nell’organizzazione dello Stato costituzionale, esercita una funzione ad essa affidata direttamente dalla Costituzione. Per questa ragione, attraverso un meccanismo di adeguamento automatico del trattamento economico dei magistrati, la legge, sulla base dei principi costituzionali, ha messo al riparo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di interferenza, che potesse, sia pure potenzialmente, menomare tale funzione, attraverso una dialettica contrattualistica. In tale assetto costituzionale, pertanto, il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo ed indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto.

11.5.— In occasione di pregresse manovre economiche, recanti deroghe temporanee a tali meccanismi rivalutativi di adeguamento, disposte, in particolare, in occasione della grave congiuntura economica del 1992, questa Corte ha già indicato i limiti entro i quali un tale intervento può ritenersi rispettoso dei principi sopra sintetizzati.

In particolare, l’ordinanza n. 299 del 1999, premesso che il decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, era stato emanato in un momento molto delicato per la vita economico-finanziaria del Paese, caratterizzato dalla necessità di recuperare l’equilibrio di bilancio, ha affermato che «per esigenze così stringenti il legislatore ha imposto a tutti sacrifici anche onerosi (sentenza n. 245 del 1997) e che norme di tale natura possono ritenersi non lesive del principio di cui all’art. 3 della Costituzione (sotto il duplice aspetto della non contrarietà sia al principio di uguaglianza sostanziale, sia a quello della non irragionevolezza), a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso». In particolare, la pronuncia ha precisato che tale intervento, «pur collocandosi in un ambito estremo, non lede tuttavia alcuno dei precetti indicati, in quanto il sacrificio imposto ai pubblici dipendenti dal comma 3 del citato art. 7 è stato limitato a un anno; così come limitato nel tempo è stato il divieto di stipulazione di nuovi accordi economici collettivi, previsto dal comma 1 dell’art. 7 e che, quindi, tale norma ha imposto un sacrificio non irragionevolmente esteso nel tempo (sentenza n. 99 del 1995), né irrazionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini».

Sempre con riferimento al decreto-legge n. 384 del 1992, è stato altresì sottolineato che il cosiddetto “blocco” dallo stesso stabilito, di cui era evidente il carattere provvedimentale del tutto eccezionale, esauriva i suoi effetti nell’anno considerato, limitandosi a impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio del bilancio (sentenza n. 245 del 1997), riconosciute meritevoli di tutela a condizione che le disposizioni adottate non risultassero arbitrarie (sentenze n. 417 del 1996, n. 99 del 1995, n. 6 del 1994).

11.6.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati può, dunque, a certe condizioni essere sottoposto per legge a limitazioni, in particolare quando gli interventi che incidono su di esso siano collocati in un quadro di analoghi sacrifici imposti sia al pubblico impiego (attraverso il blocco della contrattazione – sulla base della quale l’ISTAT calcola l’aumento medio da applicare), sia a tutti i cittadini, attraverso correlative misure, anche di carattere fiscale.

Allorquando la gravità della situazione economica e la previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio.

Nel caso di specie, i ricordati limiti tracciati dalla giurisprudenza di questa Corte risultano irragionevolmente oltrepassati.

11.7.— In primo luogo, la disciplina censurata ha posto nel nulla la determinazione già disposta con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 giugno 2009, che aveva fissato l’incremento con decorrenza dal 1° gennaio 2009, incidendo quindi sul conguaglio del 2012. Pertanto, assume rilievo decisivo la constatazione che, in relazione a questo aspetto, l’intervento per il solo personale della magistratura eccede l’obiettivo di realizzare un “raffreddamento” della dinamica retributiva ed ha, invece, comportato una vera e propria irragionevole riduzione di quanto già riconosciuto sulla base delle norme che disciplinano l’adeguamento.

In secondo luogo, oltre ad essere disposto non solo un raffreddamento della dinamica retributiva, bensì una riduzione di quanto già spettante per il 2012, è stato impedito qualsiasi recupero di tale progressione, con l’imposizione di un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; escludendo pertanto il triennio 2011-2013 e con un effetto irreversibile.

La fissazione di un “tetto” per l’acconto dell’adeguamento relativo all’anno 2014 e di un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, scollegato peraltro dalle esigenze di bilancio che governano il provvedimento, costituisce, infatti, un ulteriore illegittimo superamento dei limiti temporali dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore per il triennio 2011-2013. Tale disciplina, in quanto suscettibile di determinare effetti permanenti del blocco dell’adeguamento soltanto per le categorie interessate dal medesimo blocco, determina per ciò stesso la violazione dell’art. 3 Cost., nonché dei ricordati principi costituzionali posti a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. La disciplina in esame realizza, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento fra la categoria dei magistrati e quella del pubblico impiego contrattualizzato, che, diversamente dal primo, vede limitata la possibilità di contrattazione soltanto per un triennio.

Inoltre, l’intervento normativo in questione non solo copre potenzialmente un arco di tempo superiore alle individuate esigenze di bilancio, ma soltanto apparentemente è limitato nel tempo, se si considerano le analoghe misure pregresse che hanno interessato i meccanismi di adeguamento, in particolare, con riferimento all’art. 1, comma 576, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), che riduceva la corresponsione dell’adeguamento maturato.

In tale contesto, il fatto che i magistrati, in quanto esclusi dalla possibilità di interloquire in sede contrattuale, si giovino degli aumenti contrattuali soltanto con un triennio di ritardo, salva la previsione di acconti, non può consentire di arrecare esclusivamente ad essi un ulteriore pregiudizio, consistente non soltanto nella mancata progressione relativa al triennio precedente, ma anche conseguente all’impossibilità di giovarsi di quella che la contrattazione nel pubblico impiego potrebbe raggiungere oltre il triennio di blocco. In questo senso, l’intervento normativo censurato, oltre a superare i limiti costituzionali indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, che collocava in ambito estremo una misura incidente su un solo anno, travalica l’effetto finanziario voluto, trasformando un meccanismo di guarentigia in motivo di irragionevole discriminazione.

In definitiva, la disciplina censurata eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive, in danno di una sola categoria di pubblici dipendenti.

11.8.— Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981, non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015, l’acconto spettante per l’anno 2014 è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21.

12.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, nella parte in cui stabilisce la decurtazione dell’indennità prevista dall’art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è fondata.

12.1.— In limine, va osservato che la giurisprudenza di questa Corte ha dapprima definito tale indennità come voce collegata al “servizio istituzionale svolto dai magistrati” (ordinanza n. 57 del 1990).

Successivamente, la sentenza n. 238 del 1990 ha ulteriormente precisato che la “speciale” indennità di cui si tratta, correlandosi al peculiare status dei magistrati, costituisce una componente del loro normale trattamento economico, soggetto ad una regolamentazione autonoma. Tale componente, tuttavia, secondo la Corte, è necessariamente correlata al concreto esercizio delle funzioni, in quanto espressamente collegata ai particolari “oneri” che i magistrati “incontrano nello svolgimento della loro attività”, la quale comporta peraltro un impegno senza prestabiliti limiti temporali. La corresponsione della stessa è, dunque, strettamente connessa all’effettiva prestazione del servizio (sentenza n. 407 del 1996 e ordinanza n. 106 del 1997).

Con riferimento alla erogazione di tale indennità nel caso di astensione obbligatoria dal lavoro dei magistrati, la Corte ha ribadito la peculiarità di tale voce stipendiale, sia dal punto di vista del regime di corresponsione e di rivalutazione, sia dal punto di vista della specialità della sua ispirazione al precetto costituzionale di autonomia ed indipendenza (ordinanze n. 346 del 2008, n. 137 del 2008, n. 290 del 2006).

Ai fini della decisione occorre, dunque, tenere conto del fatto che tale indennità, sebbene sia stata nel tempo considerata anche come una componente normale della retribuzione, non ha perso la sua natura particolare, conseguente all’essere la stessa diretta a compensare un complesso di oneri inscindibilmente connessi alle modalità di esercizio delle funzioni svolte dai magistrati.

12.2.— Ciò posto, occorre preliminarmente stabilire la natura giuridica del prelievo stabilito dalla norma impugnata, la quale statuisce che l’indennità «spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, è ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013».

12.3.— Questa Corte non ritiene che la disposizione in esame preveda una mera progressiva riduzione dell’indennità.

In primo luogo, la formula utilizzata dal legislatore non lascia adito a dubbi sul fatto che l’indennità continui ad assolvere la sua originaria funzione di compensare i particolari oneri connessi al servizio istituzionale svolto dai magistrati. La “riduzione”, infatti, non opera ai fini previdenziali e, pertanto, integra non una decurtazione retributiva, ma un prelievo triennale straordinario per aliquote crescenti.

In secondo luogo, confinare la misura finanziaria in esame nell’ambito retributivo significherebbe incorrere in una contraddizione, dato che dovrebbero ritenersi corrispondentemente ridotti, nel periodo considerato, quei particolari oneri che essa è diretta a compensare, riduzione che, all’evidenza, è esclusa. Tale opzione ermeneutica, inoltre, condurrebbe ad una conclusione altrettanto irragionevole, poiché essa attribuirebbe al legislatore l’intento di ridurre una componente connessa ad una soluzione organizzativa in cui l’amministrazione pubblica, piuttosto che optare per un diretto impiego di moduli organizzativi e strumentali che tengano indenni economicamente i magistrati dai predetti oneri, ha ritenuto più vantaggioso affidarne a questi ultimi una porzione, previo specifico ristoro economico, sottratto, dunque, ad imposizioni tributarie diverse da quelle che già colpiscono, a mezzo ritenuta, tali somme.

Per altro verso, poi, trattandosi di una componente del trattamento economico collegata ai principi di autonomia ed indipendenza della magistratura, la sua riduzione, in sé, in aggiunta alla mancata rivalutazione, determinerebbe un ulteriore vulnus della Costituzione.

Vero è che, esclusa la configurabilità di un prelievo forzoso sine causa, deve ritenersi che la decurtazione oggetto della questione di costituzionalità, nonostante il riferimento testuale ad una “riduzione” e ad un “contenimento delle spese”, rivesta carattere tributario, trattandosi all’evidenza di una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinata a sovvenire le pubbliche spese. La ratio della disposizione censurata, in altri termini, è quella di reperire risorse per l’erario.

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un rapporto di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico statale “non contrattualizzato”); le risorse connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione sono destinate a sovvenire pubbliche spese.

Questi tre richiamati requisiti, congiuntamente considerati, ricorrono nella misura in esame, considerato che l’indennità giudiziaria partecipa di una natura retributiva e la sua decurtazione, ai fini del «contenimento delle spese in materia di impiego pubblico» (come reca la rubrica dell’art. 9 censurato), costituisce il dichiarato e prevalente intento del legislatore. Inoltre, la misura denunciata neppure ha modificato l’istituto dell’indennità giudiziaria, perché alla temporanea diminuzione di alcuni punti percentuali della entità di tale indennità non corrisponde, come sopra precisato, né la correlativa riduzione degli obblighi e prestazioni previdenziali, né la riduzione dei carichi lavorativi che l’indennità è diretta a compensare. Infine, l’assenza di una espressa indicazione della destinazione delle maggiori risorse conseguite dallo Stato non esclude che siano destinate a sovvenire pubbliche spese, e, in particolare, a stabilizzare la finanza pubblica, trattandosi di un usuale comportamento del legislatore quello di non prevedere, per i proventi delle imposte, una destinazione diversa dal generico “concorso alle pubbliche spese” desumibile dall’art. 53 Cost. Nella specie, tale destinazione si desume anche dal titolo stesso del decreto-legge: «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», in coerenza con le finalità generali delle imposte.

12.4.— Ritenuta la natura tributaria della misura in esame, questa non è immune dalle censure di illegittimità costituzionale prospettate da tutti i rimettenti con riferimento agli articoli 3 e 53 Cost.

Il tributo che interessa incide su una particolare voce di reddito di lavoro, che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro; e introduce, quindi, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto ai danni della particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia dell’indennità giudiziaria. Con la sua applicazione, infatti, viene colpita piú gravemente, a parità di capacità contributiva per redditi di lavoro, esclusivamente detta categoria. Ove, poi, si potesse prescindere da tale pur decisiva considerazione, la previsione di siffatto tributo speciale comporterebbe comunque una ingiustificata disparità di trattamento con riguardo alle indennità percepite dagli altri dipendenti statali, non assoggettate, negli stessi periodi d’imposta, ad alcun prelievo tributario aggiuntivo. È opportuno sottolineare che l’indicata disparità di trattamento è tanto piú ingiustificata in quanto proprio la sopra ricordata funzione dell’indennità giudiziaria di compenso all’attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia, esige il piú scrupoloso rispetto da parte del legislatore dei canoni della ragionevolezza e dell’uguaglianza.

12.5.— Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013.

Restano assorbite le ulteriori censure.

13.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è del pari fondata.

13.1.— La disposizione, nella parte censurata, prevede che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro».

13.2.— Anche la decisione su tale questione richiede, preliminarmente, di accertare se la norma censurata preveda una mera riduzione del trattamento economico, incidente solo sul contenuto del rapporto lavorativo dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (come afferma l’Avvocatura generale dello Stato), oppure introduca un vero e proprio prelievo tributario (come sostengono i TAR rimettenti).

13.2.1.— Come già osservato in precedenza, questa Corte ha piú volte affermato che, indipendentemente dal nomen iuris attribuitole dal legislatore, al fine di valutare se una decurtazione patrimoniale definitiva integri un tributo, occorre interpretare la disciplina sostanziale che la prevede alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria di tributo: cioè la doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). Un tributo consiste, quindi, in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964).

13.2.2.— Tanto premesso, va constatato che la disposizione impugnata (introdotta dal medesimo incipit e sorretta dalla medesima ratio del contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo» e convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, la cui natura tributaria è indubitabile) partecipa di tutti i sopra indicati elementi caratteristici del prelievo tributario.

In primo luogo, è stata stabilita in via autoritativa una decurtazione patrimoniale («riduzione» del trattamento economico), senza che rilevi la volontà – in ordine all’an, al quantum, al quando ed al quomodo – di chi la subisce.

In secondo luogo, la norma stabilisce che le risorse rese disponibili dalla «riduzione» del trattamento economico sono acquisite al bilancio dello Stato, senza operare alcuna distinzione tra le diverse categorie di dipendenti pubblici e, in particolare, tra i dipendenti pubblici statali e non statali. Ne deriva che la misura finanziaria in esame non può integrare una nuova disciplina del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e dipendente, perché lo Stato non avrebbe titolo per modificare con la disposizione in esame i trattamenti economici di rapporti lavorativi di cui non è parte. In altri termini, gli enti pubblici non statali (territoriali o no), nella loro qualità di datori di lavoro, non traggono alcun beneficio economico dalla predetta «riduzione», ma agiscono come «sostituti d’imposta» per le imposte sui redditi, trattenendo gli importi indicati dalla norma denunciata (quali «ritenute alla fonte») e provvedendo al loro «versamento diretto» all’erario per conto dei “sostituiti” propri dipendenti (ai sensi degli artt. 1, lettera b, e 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito»). Inoltre, la permanenza degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» (terzo periodo dell’impugnato comma 2: «La riduzione […] non opera ai fini previdenziali») costituisce ulteriore e definitiva dimostrazione che la temporanea decurtazione del trattamento economico integra, in realtà, un prelievo a carico del dipendente pubblico e non una modificazione (peraltro unilaterale) del contenuto del rapporto di lavoro, alla quale avrebbe dovuto necessariamente conseguire, secondo ragionevolezza, una corrispondente modificazione di tali obblighi. Né a conclusioni diverse può giungersi per i soli dipendenti statali cosiddetti “non contrattualizzati”, per i quali una modifica del trattamento economico avrebbe necessariamente richiesto un intervento legislativo. È evidente, infatti, che l’unitarietà della disciplina posta dalla norma censurata (che, come già osservato, non distingue tra diverse categorie di dipendenti pubblici ed ha riguardo al «trattamento economico complessivo», comprensivo anche di voci stipendiali ed indennitarie corrisposte allo stesso soggetto da diverse amministrazioni pubbliche) e la permanenza in ogni caso degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» impediscono di ritenere che per i soli dipendenti statali non contrattualizzati la norma impugnata abbia introdotto una nuova, temporanea e parziale disciplina del rapporto lavorativo. L’unica particolarità per i dipendenti statali (contrattualizzati o no) consiste nel fatto (non rilevante ai fini del presente giudizio) che il prelievo è effettuato dallo Stato mediante «ritenuta diretta», ai sensi degli artt. 1, lettera a), e 2 del d.P.R. n. 602 del 1973.

In terzo luogo, sussiste il collegamento del prelievo con la pubblica spesa, in quanto lo stesso legislatore afferma che la norma impugnata risponde alla dichiarata ratio di destinare le risorse rese disponibili dalla decurtazione patrimoniale del trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici al bilancio dello Stato per raggiungere, nei tempi previsti, gli obiettivi concordati in sede europea, cioè il pareggio di bilancio e, in particolare, la diminuzione del debito pubblico.

In quarto luogo, il presupposto economicamente rilevante in relazione al quale è previsto il prelievo è, con tutta evidenza, il complessivo reddito di lavoro conseguito dal dipendente pubblico nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013. Le stesse modalità applicative della misura seguite dal Ministero dell’economia e delle finanze, includendo nel montante lordo liquidato nel corso dell’anno, anche gli arretrati sia relativi all’anno corrente che per anni precedenti, sia delle competenze fisse che di quelle accessorie, ricollega la misura, più che al trattamento economico del dipendente, al reddito da lavoro pubblico, che concorre a formare il calcolo del risultato impositivo.

Occorre, perciò, concludere che la normativa, nonostante la formulazione letterale della norma in esame, non può considerarsi una riduzione delle retribuzioni, come sostiene l’Avvocatura dello Stato, allorchè, nella memoria difensiva, individua la necessità dell’intervento nel suggerimento dei presidenti (uscente e nominato) della BCE (banca centrale per la moneta unica europea) contenuto in una lettera al Governo italiano.

Si tratta, invece, di una imposta speciale prevista nei confronti dei soli pubblici dipendenti.

13.3.— Ritenuta la natura tributaria del prelievo stabilito dalla norma censurata, occorre valutarne la conformità con i parametri evocati.

13.3.1.— In proposito va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000). Pertanto, il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111 del 1997).

Nella specie, pure considerando al giusto la discrezionalità legislativa in materia, la norma impugnata si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. L’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili.

Da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. D’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura. Nel caso in esame, dunque, l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo. L’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale.

In conclusione, il tributo imposto determina un irragionevole effetto discriminatorio.

13.4.— Di conseguenza, va pronunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro.

14.— Anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 36 Cost. è fondata.

La premessa interpretativa del TAR per l’Umbria è, innanzitutto, corretta in punto di ricostruzione del quadro normativo, poiché la mancata espressa esclusione del permanere della trattenuta a carico del lavoratore non potrebbe indurre a far uso dell’argomento a silentio sia pure per perseguire un’interpretazione costituzionalmente orientata. Il perdurare del prelievo di cui si discute, infatti, oltre a derivare dall’astratta compatibilità fra il nuovo regime e la disciplina contenuta nel d.P.R. n. 1032 del 1973, è avvalorato dal fatto che il citato art. 12, comma 10, non contiene affatto una disciplina organica sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, in grado di sostituirsi, in senso novativo, al d.P.R. n. 1032 del 1973, come del resto ritenuto dall’Amministrazione in sede applicativa.

Ciò posto, va osservato che fino al 31 dicembre 2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80% della retribuzione. La differente normativa pregressa prevedeva dunque un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente di cui si discute.

Nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla norma impugnata, invece, la percentuale di accantonamento opera sull’intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del TFR maturata nel tempo.

La disposizione censurata, a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032.

Nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione.

14.1.— Va, quindi, pronunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 1032 del 1973.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato, nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, da Abbritti Paolo;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura) non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013;

4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro;

5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato);

6) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012, dai TAR per l’Abruzzo e per l’Umbria;

7) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 54 e 74 del 2012, dai TAR per l’Umbria e per la Calabria.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 ottobre 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l’11 ottobre 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

 

La Redazione

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