Consulta: legittimo il limite di 240.000 euro all’anno nelle retribuzioni della P.A.

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Con sentenza n. 124 del 26 maggio 2017, la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità del limite imposto dalla legge di stabilità per il 2014 secondo il quale non può essere superato il tetto dei 240.000 euro (anche con il cumulo della pensione derivante da gestioni pubbliche).

La Consulta ha affermato che ” non è precluso al Legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni nel settore pubblico, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole”.
Fonte: Corte Costituzionale

 


SENTENZA N. 124

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», promossi dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con sette ordinanze del 17 aprile 2015, quattro del 21 aprile 2015, sette del 7 aprile 2016, una dell’8 aprile 2016, una del 6 aprile 2016, rispettivamente iscritte ai nn. da 220 a 230 del registro ordinanze 2015 e ai nn. da 172 a 180 del registro ordinanze 2016, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2015 e nn. 39 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2016, e nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 21 luglio 2016, iscritta al n. 211 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2016;

Visti gli atti di costituzione di S. B., di R. V., di G. Z., di M. C., di S. D.V., di P. V., di L. P., di C. G., di F. M. ed altri, di F. D.I. ed altri, di D. C., di M. M., di M. Z., di A. P., di V. S., di E. T., di P. L.R., di C. B. ed altri, di F. I., dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento di C. B. ed altri e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2017 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Federico Sorrentino per F. M. ed altri, F. D.I. ed altri e D. C., Massimo Luciani per M. M., M. Z., A. P., V. S., E. T., P. L.R., C. B. ed altri, Mario Sanino e Paola Salvatore per S. B., R. V., G. Z., M. C., S. D.V., P. V., L. P. e C. G., Federico Tedeschini e Gianmaria Covino per F. I., Flavia Incletolli per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, con le ordinanze iscritte ai nn. 220, 221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 228, 229 e 230 del reg. ord. 2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.

I giudizi traggono origine dai ricorsi proposti dai consiglieri della Corte dei conti, di nomina governativa, contro i provvedimenti del Segretariato generale della Corte dei conti, che ha applicato il limite tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche, sancito dalla norma censurata, e ha disposto per l’avvenire la sospensione delle retribuzioni superiori a tale limite e, per il passato, la restituzione delle somme indebitamente riscosse.

1.1.– I ricorrenti nei giudizi principali hanno chiesto di accertare il diritto di percepire integralmente gli emolumenti connessi al servizio prestato come giudici contabili, senza le decurtazioni stabilite dall’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, e il diritto al versamento dei contributi previdenziali e degli accantonamenti per il trattamento di fine servizio, con condanna dell’amministrazione a corrispondere le somme indebitamente trattenute e a restituire quelle recuperate senza titolo.

A sostegno di tali richieste, i ricorrenti hanno argomentato che la norma censurata non si applica ai contratti e agli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza e che una diversa interpretazione, volta ad escludere tale deroga, contrasterebbe con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

In subordine, i ricorrenti hanno eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.

In particolare, il tetto massimo agli emolumenti determinerebbe la forte decurtazione o l’azzeramento della retribuzione di consiglieri della Corte dei conti, con conseguente decurtazione anche dei contributi previdenziali che concorrono a comporre il trattamento pensionistico.

La norma censurata pregiudicherebbe l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, garanzia che assiste anche la magistratura contabile, e si tradurrebbe nell’imposizione di un prelievo fiscale illegittimo, in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

I ricorrenti soggiungono che la previsione censurata si porrebbe in contrasto con il buon andamento della pubblica amministrazione, penalizzando coloro che vantano la professionalità più elevata.

I ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, in quanto, ai fini del superamento del limite retributivo, si sarebbe computata l’indennità integrativa speciale e giudiziaria di cui all’art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), pur sprovvista di natura retributiva.

Nei giudizi, in cui sono state emesse le ordinanze nn. 221 e 222 del 2015, i ricorrenti hanno formulato ulteriori motivi di ricorso, riguardanti l’illegittima applicazione retroattiva dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013: i provvedimenti, adottati nel giugno 2014, hanno prodotto effetti a decorrere dal gennaio 2014.

Sarebbe censurabile, inoltre, la scelta di calcolare il trattamento di quiescenza corrisposto dal Senato al lordo del contributo di solidarietà.

Nel giudizio in cui è stata emessa l’ordinanza n. 221 del 2015, i ricorrenti hanno dedotto di essere esclusi dall’àmbito di applicazione della norma censurata, in quanto i trattamenti di quiescenza sono erogati direttamente dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, che non si configurano come gestioni previdenziali pubbliche.

Tale assunto non è stato condiviso dal TAR rimettente, sulla scorta del rilievo che il limite posto dall’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 non attiene tanto al trattamento previdenziale, quanto piuttosto ai compensi corrisposti da altre amministrazioni.

Nel giudizio in cui è stata emessa l’ordinanza n. 228 del 2015, il ricorrente ha evidenziato che il trattamento previdenziale, in quanto corrisposto dal Comando generale della Guardia di Finanza, non può considerarsi erogato da gestioni previdenziali pubbliche, e da tale rilievo ha ritenuto di evincere l’inapplicabilità della norma citata.

Il giudice a quo, tuttavia, ha disatteso anche questo argomento.

1.2.– Nel giudizio in cui è stata emessa l’ordinanza iscritta al n. 221 del reg. ord. 2015, sono intervenuti ad adiuvandum numerosi consiglieri di Stato di nomina governativa, titolari di trattamento di quiescenza erogato dalla Camera dei deputati, dal Senato o da gestioni previdenziali pubbliche, che hanno già impugnato dinanzi al TAR i provvedimenti adottati dalle amministrazioni di appartenenza.

L’intervento è stato dichiarato inammissibile dal TAR, che ha reputato ammissibile nel giudizio amministrativo solo l’intervento di tipo adesivo dipendente, volto a tutelare un interesse riflesso rispetto a quello del ricorrente, e non già un interesse direttamente pregiudicato dall’atto impugnato dal ricorrente principale.

1.3.– Il giudice rimettente muove dalla premessa che la limitazione dei trattamenti retributivi e pensionistici a carico delle risorse pubbliche non sia di per sé irragionevole e miri a razionalizzare la «c.d. “giungla retributiva”», che caratterizza l’amministrazione pubblica.

Quanto alla deroga, prevista per i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza, essa non riguarderebbe «l’esercizio in atto di una funzione giurisdizionale “togata” e non onoraria, ovverosia svolta a seguito dell’inserimento a pieno titolo in un plesso giurisdizionale, con la conseguente creazione di un rapporto d’ufficio caratterizzato non già da una prefissata temporaneità bensì – al contrario – dalla stabilità ed anzi dalla garanzia della inamovibilità».

Tale interpretazione non determinerebbe alcuna arbitraria disparità di trattamento: si dovrebbe semmai sottoporre al sindacato di legittimità costituzionale la deroga accordata ai contratti in corso, per l’indebita posizione di vantaggio che essa determina.

Il giudice a quo non ravvisa alcuna violazione del «principio di tutela dell’affidamento, di cui agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione e 6 della CEDU», in quanto i ricorrenti, all’atto dell’accettazione dell’incarico, conoscevano o avrebbero comunque potuto agevolmente conoscere le misure di contenimento della spesa pubblica, adottate dallo stesso Governo che aveva conferito loro l’incarico, e non avrebbero potuto confidare in una deroga a tali previsioni restrittive.

Peraltro, al legislatore non sarebbe preclusa una modificazione sfavorevole dei rapporti di durata, nel rispetto del principio di eguaglianza e della tutela dell’affidamento. La disciplina in esame, lungi dal porsi in contrasto con tali precetti costituzionali, costituirebbe attuazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e dei princìpi di buon andamento della pubblica amministrazione e perseguirebbe finalità di interesse generale, nell’ottica della trasparenza e della congruità della spesa pubblica.

Il giudice rimettente esclude che la limitazione in esame integri un prelievo di natura tributaria: il legislatore stabilirebbe un limite generale all’erogazione di retribuzioni a carico delle finanze pubbliche, senza imporre alcun prelievo forzoso sulle somme che il singolo interessato percepisce oltre tale limite.

Da tali considerazioni discenderebbe l’infondatezza delle censure che fanno leva sul contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.

1.4.– Il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma citata, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.

1.4.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che i provvedimenti impugnati «trovano la loro indefettibile base normativa» nell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013: la declaratoria di illegittimità costituzionale travolgerebbe i provvedimenti impugnati e condurrebbe all’accoglimento del ricorso.

Quanto ai motivi di ricorso, che vertono sulle modalità applicative della norma censurata, essi presuppongono la legittimità costituzionale della norma in oggetto e il giudice rimettente si riserva di approfondirli nell’ulteriore corso del giudizio.

1.4.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente non reputa decisivo l’elemento dell’elevata qualità professionale dell’attività svolta da funzionari pubblici di assoluta eccellenza.

È lo svolgimento continuativo della funzione di consigliere della Corte dei conti, con l’assunzione di tutte le prerogative e di tutte le notevoli responsabilità, di natura professionale e civile, che riveste rilievo cruciale: l’inserimento a pieno titolo nei ruoli della magistratura togata, con peculiari garanzie di stabilità e di inamovibilità, è la premessa che accomuna le censure proposte.

Il giudice rimettente appunta le censure sulla scelta del legislatore di richiedere l’apporto professionale dei ricorrenti, senza prevedere incompatibilità, decadenze, o l’opzione per funzioni gratuite o retribuite in misura inferiore, e di negare al tempo stesso la retribuzione per l’attività svolta.

La scelta sarebbe irragionevole e lesiva del diritto al lavoro dei ricorrenti.

Sarebbe anche evidente il contrasto con il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.): non si potrebbero considerare «fungibili il trattamento pensionistico per un’attività precedente e il compenso per un’attività in atto, ove consentita nell’ambito dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione».

Sarebbe violato anche il diritto a una tutela assistenziale e previdenziale adeguata (art. 38 Cost.), poiché la diminuzione e l’azzeramento della retribuzione si tradurrebbero nella decurtazione dei contributi previdenziali e, conseguentemente, del trattamento pensionistico che deriva dall’accumulo del montante contributivo.

La norma citata entrerebbe in conflitto con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.): pur disciplinando in maniera omogenea attribuzioni e responsabilità dei consiglieri per concorso e dei consiglieri di nomina governativa, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento sotto il profilo retributivo, con ripercussioni sul buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), per l’indifferenziata attribuzione, a titolo oneroso o gratuito, di funzioni salienti.

La normativa censurata, per altro verso, recherebbe un vulnus all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, tutelate dagli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost. anche con riguardo alla progressione in carriera e al trattamento economico.

1.5.– Nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 220, 223, 224, 225, 226, 227, 229 e 230 del 2015, si sono costituiti, con distinte memorie depositate il 21 ottobre 2015, S. B., R. V., G. Z., M. C., S. D.V., P. V., L. P. e C. G., parti ricorrenti nei giudizi principali, e hanno chiesto di accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo per il Lazio.

Le parti hanno posto l’accento sulla disparità di trattamento tra consiglieri di nomina governativa e consiglieri per concorso, che pure svolgono le medesime funzioni, e sulla violazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. La norma censurata determinerebbe un indebito condizionamento della funzione giurisdizionale, menomando il prestigio di cui il magistrato deve godere presso la comunità dei cittadini.

L’illegittimità costituzionale della normativa si coglierebbe anche nel carattere definitivo e permanente del sacrificio imposto, in violazione del diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, visto che quest’ultima sarebbe commisurata alla pensione percepita per una pregressa e oramai conclusa attività lavorativa.

L’incarico di magistrato si tramuterebbe in incarico onorario, a titolo gratuito, secondo un meccanismo atto a disincentivare il diritto al lavoro del pensionato.

La decurtazione del trattamento fondamentale inciderebbe anche sull’ammontare della pensione, in contrasto con l’art. 38 Cost.

La disciplina in esame, in violazione del principio di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, limiterebbe la libertà dell’esecutivo di designare alla Corte dei conti le figure «di maggiore spicco», che si sono segnalate per l’attività già prestata a favore dell’amministrazione.

Il Governo sarebbe costretto a indirizzare altrove le sue scelte, trascurando le «figure più qualificate».

1.5.1.– Con separate istanze, depositate il 22 settembre 2016, le parti indicate hanno chiesto la sollecita trattazione del giudizio.

1.5.2.– In vista dell’udienza, il 24 febbraio 2017, le parti citate hanno depositato una memoria illustrativa, ribadendo le conclusioni già rassegnate e le argomentazioni enunciate nel costituirsi in giudizio.

Anche a voler configurare in termini solidaristici la drastica riduzione o l’azzeramento permanente della retribuzione, l’intervento attuato dal legislatore sarebbe privo dei caratteri di temporaneità, proporzionalità e ragionevolezza, enucleati dalla giurisprudenza costituzionale, e si atteggerebbe come un prelievo tributario, destinato a colpire specificamente i pensionati pubblici, che hanno acquisito il diritto a un trattamento previdenziale elevato e, dopo la pensione, svolgono funzioni giurisdizionali.

1.6.– Nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 221, 222 e 228 del 2015, si sono costituiti, con distinte memorie depositate il 18 novembre 2015, F. M. ed altri, F. D. I. ed altri e D. C., ricorrenti nei giudizi principali, e hanno chiesto di dichiarare incostituzionale l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.

La disposizione censurata, risolvendosi nel divieto di pagare, in tutto o in parte, la retribuzione dovuta ai dipendenti che pure continuano a prestare la loro attività lavorativa, contrasterebbe con il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e con il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.).

In conseguenza del limite censurato, sarebbe disincentivato il lavoro di chi è già in pensione e la retribuzione, elemento indefettibile del contratto di lavoro, perderebbe «qualsiasi aggancio rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto» e sarebbe ancorata, per contro, «al reddito pensionistico percepito per altra attività lavorativa, prestata in passato in base ad un rapporto ormai concluso».

La disciplina in esame contrasterebbe anche con il principio di eguaglianza, in quanto imporrebbe alle amministrazioni di trattare diversamente i dipendenti, a parità di mansioni e di anzianità lavorativa.

Le parti richiamano la giurisprudenza costituzionale, che ha ritenuto legittimi i divieti di cumulo tra pensione e stipendio, a patto che non incidano sulla proporzione tra la retribuzione e l’attività svolta (è citata la sentenza n. 220 del 2005).

La norma, nel determinare una riduzione o un mancato versamento dei contributi previdenziali, si tradurrebbe, per altro verso, in una decurtazione dell’ammontare della futura pensione e del trattamento di fine servizio dei pubblici dipendenti, lesiva dell’art. 38 Cost.

Le parti prospettano il contrasto con gli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., che tutelano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura anche con riguardo al trattamento economico: sarebbe illegittima ogni forma di interferenza, atta a menomare la funzione giurisdizionale anche con riguardo agli aspetti retributivi che la contraddistinguono.

La previsione censurata, lungi dal configurarsi come misura eccezionale e limitata nel tempo, imporrebbe un sacrificio permanente e sproporzionato rispetto alle esigenze idonee a giustificarlo. Come emerge anche dalla relazione tecnica predisposta dalla Ragioneria generale dello Stato, l’intervento normativo non produrrebbe alcun effetto di risparmio e sarebbe ispirato a «una scelta d’immagine puramente demagogica», che considera alla stregua di una “colpa” l’elevato livello di reddito raggiunto.

Le parti indicano, quale ulteriore elemento sintomatico dell’irragionevolezza, l’incoerenza della disciplina censurata con la designazione governativa dei consiglieri della Corte dei conti, indirizzata a funzionari pubblici di alto livello, che, in gran parte, hanno già maturato il diritto alla pensione.

Le parti paventano, inoltre, la lesione del buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto il meccanismo descritto renderebbe «assai ardua la futura scelta di consiglieri da parte del Governo»: da tale angolo visuale, è improbabile che funzionari di alto livello abbandonino una prestigiosa carriera, «per lavorare gratuitamente».

1.7.– Nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 221, 222 e 228 del 2015, si è costituito anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con memoria del 23 novembre 2015, e ha chiesto di dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale, «per difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione», e, in subordine, di dichiararne «la infondatezza».

In punto di ammissibilità, l’INPS osserva che le ordinanze di rimessione presentano una «assoluta carenza di motivazione» e non si confrontano con la peculiare posizione dei ricorrenti, che già percepiscono, a titolo di trattamento di quiescenza, «somme che eccedono il limite massimo ora consentito nell’ambito del comparto pubblico».

La questione, ad ogni modo, non sarebbe fondata, sol che si consideri che la normativa «risponde ad evidenti obiettivi di contenimento, trasparenza e congruità della spesa pubblica – nel quadro dei doveri di solidarietà sociale, art. 2 Cost., e dei principi di buon andamento della amministrazione, art. 97 Cost. – assunti dal nostro Paese nell’ambito Comunitario».

Inoltre, il legislatore ben potrebbe adottare interventi rispettosi del principio di eguaglianza, volti a modificare in senso sfavorevole i rapporti di durata.

Non sarebbe fondato neppure il sospetto di violazione dell’art. 38 Cost., in quanto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale non potrebbe apportare alcun incremento del trattamento previdenziale dei ricorrenti, beneficiari di pensioni che già superano il limite vigente nel comparto pubblico.

1.8.– Nel giudizio di cui al reg. ord. n. 221 del 2015, si sono costituiti, con memoria del 24 novembre 2015, C. B. ed altri, intervenuti ad adiuvandum nel giudizio principale in prossimità dell’udienza di trattazione del ricorso, dopo aver impugnato in via autonoma, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, i provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza limitativi del cumulo tra la remunerazione delle funzioni in corso di svolgimento e il trattamento di quiescenza già maturato.

I deducenti dichiarano di costituirsi nel giudizio di legittimità costituzionale, in qualità di parti costituite nel giudizio a quo, ancorché l’ordinanza di rimessione abbia dichiarato inammissibile il loro intervento.

La dichiarazione di inammissibilità dell’intervento, che differisce da una pronuncia di estromissione dal processo, non farebbe venir meno la qualità di parti, legittimate in tale veste a partecipare al giudizio di legittimità costituzionale.

Tale legittimazione, per altro verso, si fonderebbe sul pregiudizio immediato e inevitabile che si correla alla decisione della Corte.

I deducenti affermano l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente, dopo avere compiutamente ricostruito la fattispecie di causa e dopo avere escluso la praticabilità di un’interpretazione conforme a Costituzione.

Le questioni sarebbero rilevanti e fondate, anzitutto in riferimento all’art. 36 Cost.: il meccanismo denunciato condurrebbe a ingenti decurtazioni o all’azzeramento delle retribuzioni percepite nello svolgimento di funzioni, come quella di consigliere della Corte dei conti o del Consiglio di Stato, «di cruciale importanza e di grande responsabilità».

Sarebbero parimenti fondate le censure di violazione degli artt. 3 e 97 Cost., in quanto la norma impugnata sortisce l’effetto di precludere la nomina di figure di spicco, che vantano «esperienze particolari di amministrazione attiva», in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e di buon andamento dell’amministrazione.

Peraltro, l’assetto delineato determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra i consiglieri che vedono remunerate le funzioni svolte e coloro che sopportano la decurtazione o l’azzeramento della retribuzione, non potendo beneficiare della deroga prevista per i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza.

I deducenti mostrano di condividere i rilievi del giudice rimettente in merito alla violazione degli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., e censurano il carattere permanente e sproporzionato del sacrificio imposto, che vale, senza alcun limite, anche per il futuro.

1.9.– Nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 220, 221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 228, 229 e 230 del 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibili o comunque manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio.

L’Avvocatura generale dello Stato, dopo avere ripercorso l’evoluzione delle misure di contenimento della spesa nel settore pubblico, replica che gli interessati, investiti dell’incarico di consiglieri della Corte dei conti, potrebbero scegliere di accettarlo, per il prestigio che implica, o di rifiutarlo. Ad ogni modo, il trattamento, che si assume foriero di sperequazioni ingiustificate, deriverebbe da una «scelta volontaria».

Peraltro, la posizione dei consiglieri della Corte dei conti di nomina governativa non potrebbe essere assimilata a quella dei consiglieri vincitori di concorso.

L’Avvocatura generale dello Stato ribadisce che gli stessi giudici rimettenti non hanno ritenuto di ravvisare alcuna violazione del principio di affidamento e che tale profilo, evocato dalle parti ricorrenti nei diversi giudizi principali, esula dal sindacato di legittimità costituzionale.

Quanto alla dedotta violazione degli artt. 36 e 38 Cost., l’atto di intervento puntualizza che la norma censurata «non limita in generale e direttamente il trattamento economico o previdenziale connesso allo svolgimento di una qualsivoglia attività lavorativa», ma soltanto il cumulo di trattamenti economici posti a carico della finanza pubblica.

Peraltro, le decurtazioni della retribuzione per l’attività successiva alla pensione sarebbero meramente eventuali e troverebbero applicazione solo nell’ipotesi di superamento del limite imposto dalla legge, che non ha riguardo alla retribuzione in sé considerata, ma al trattamento complessivo, derivante dal cumulo fra trattamento previdenziale già maturato e la retribuzione corrisposta «in virtù di un nuovo rapporto (liberamente accettato dall’interessato)».

La norma censurata non contravverrebbe ai princìpi di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto concorrerebbe «ad assicurare, mediante il rispetto del limite retributivo, una più equa redistribuzione di risorse pubbliche» e non avrebbe alcuna diretta incidenza sull’organizzazione amministrativa: l’incidenza sarebbe «indiretta (comunque conseguente ad iniziative individuali)».

La disciplina in esame, inoltre, non sarebbe all’origine di alcuna disparità di trattamento tra magistrati. Sarebbero «le singole posizioni retributive e contributive», frutto di «scelte individuali», a determinare la necessità di limitare l’ammontare complessivo degli emolumenti corrisposti.

L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.: il vulnus all’indipendenza e all’autonomia della magistratura sarebbe adombrato in modo generico.

Da ultimo, la questione sarebbe inammissibile anche da un diverso punto di vista: nell’imputare al legislatore di non avere previsto ipotesi di incompatibilità o di decadenza o l’opzione per funzioni differenziate con minore compenso o del tutto onorarie e gratuite, i giudici a quibus censurano scelte eminentemente discrezionali del legislatore, e ipotizzano un intervento della Corte ben oltre i limiti di una pronuncia di accoglimento, contraddistinta da un «effetto meramente caducatorio».

2.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con ordinanze iscritte ai nn. 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179 e 180 del reg. ord. 2016, censura l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per violazione degli artt. 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.

2.1.– Le controversie prendono le mosse dai ricorsi proposti dai consiglieri di Stato di nomina governativa contro i provvedimenti del Segretariato generale della giustizia amministrativa, che ha applicato l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, disponendo la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore al limite fissato dalla legge per il cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche.

I ricorrenti hanno dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, che prevede una deroga per i contratti e gli incarichi in corso, fino alla loro naturale scadenza. Il legislatore, difatti, avrebbe inteso salvaguardare i trattamenti già in corso, e il termine “incarico” denota qualsiasi conferimento di compiti da parte dell’amministrazione, anche nell’àmbito di un rapporto di impiego non privatizzato.

L’amministrazione non avrebbe illustrato le ragioni che l’hanno indotta a ritenere inapplicabile la deroga in esame.

I ricorrenti, in via gradata, hanno prospettato, sotto svariati profili, l’illegittimità derivata dei provvedimenti impugnati, per illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013.

La limitazione della deroga solo ai dipendenti contrattualizzati o titolari di incarichi implicherebbe gravi disparità di trattamento e contrasterebbe con il principio di ragionevolezza.

I ricorrenti assumono che la fissazione di un tetto retributivo sia irragionevole. La disciplina della nomina governativa dei consiglieri di Stato «mira ad acquisire le competenze più solide e prestigiose disponibili nel mondo del diritto» e contempla come normale l’ipotesi della coesistenza del trattamento di quiescenza con la retribuzione.

Sarebbe violato anche il legittimo affidamento nella facoltà di cumulare il trattamento di quiescenza già acquisito con il trattamento retributivo, percepito per le funzioni di consigliere di Stato.

I ricorrenti denunciano il contrasto con il principio di ragionevolezza, con il diritto a un’equa retribuzione, anche differita, con il diritto alla tutela assistenziale e previdenziale e con il diritto al lavoro, in quanto «per effetto di tale disciplina, la retribuzione di attività lavorative connotate da elevatissimi standard qualitativi, svolte da funzionari pubblici in possesso di un grado di preparazione di assoluta eccellenza, viene sottoposta a ingenti decurtazioni e in non poche ipotesi addirittura azzerata», con conseguente pregiudizio per la tutela assistenziale, riconosciuta solo a chi versi la contribuzione.

In virtù del meccanismo censurato, figure di assoluto prestigio, sol perché beneficiarie di un trattamento di quiescenza prossimo o superiore al tetto di euro 240.000,00, si troverebbero costrette a percepire «una retribuzione esigua o addirittura inesistente», con pregiudizio per la libertà di esercitare una qualsiasi attività lavorativa.

La normativa sospettata di illegittimità costituzionale, penalizzando chi vanti esperienze particolari di amministrazione attiva, costringerebbe il Governo a scegliere come consiglieri di Stato figure meno qualificate, in contrasto con il principio di ragionevolezza e di buon andamento dell’amministrazione e sarebbe destinata a interferire con l’indirizzo politico-amministrativo che compete al Governo, così «distolto dal suo approdo più coerente e mortificato nella libertà della sua esplicazione».

I ricorrenti censurano, inoltre, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in quanto la normativa in esame istituirebbe un prelievo di natura sostanzialmente tributaria, che grava soltanto sui pensionati titolari di incarichi o di rapporti di lavoro pubblici.

Sarebbero altresì violati gli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 Cost.: la limitazione del trattamento retributivo dei magistrati non avrebbe portata temporale limitata, esulerebbe da un ragionevole e non arbitrario intervento perequativo e minerebbe l’indipendenza di chi è chiamato a esercitare funzioni giurisdizionali.

Risulterebbe violato anche l’art. 23 Cost., poiché la normativa in esame lascerebbe del tutto indefinita la questione della sorte della copertura assicurativa o delle modalità di recupero delle somme che superano il tetto indicato.

La difesa delle amministrazioni resistenti ha replicato che la norma censurata costituisce attuazione del principio del pareggio di bilancio, consacrato dall’art. 81 Cost., e mira al contenimento della spesa nel settore pubblico.

Quanto alla salvaguardia dei contratti e degli incarichi in corso, essa non si potrebbe applicare ai rapporti a tempo indeterminato regolati da norme di legge o da contratti collettivi e riguarderebbe unicamente rapporti a tempo determinato di fonte legale o convenzionale.

La normativa, inoltre, si prefiggerebbe di assicurare una più equa redistribuzione di risorse pubbliche e sarebbe in armonia con gli artt. 36 e 38 Cost.: le limitazioni inciderebbero sul cumulo dei trattamenti economici posti a carico delle finanze pubbliche, non sul trattamento economico o previdenziale connesso a qualsiasi attività lavorativa, e scatterebbero in via meramente eventuale.

Non sarebbe in discussione, inoltre, la corresponsione della retribuzione, ma soltanto il trattamento complessivo, derivante dal cumulo tra il trattamento previdenziale e la retribuzione percepita in forza di un nuovo rapporto di lavoro liberamente accettato.

2.2.– Il giudice rimettente ritiene, in consonanza con quanto affermato dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nell’ordinanza iscritta al n. 220 del registro ordinanze 2015, che siano rilevanti e non manifestamente infondate talune questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013.

2.2.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che i provvedimenti impugnati «trovano la loro indefettibile base normativa nell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013» e, pertanto, l’accoglimento della questione determinerebbe «l’illegittimità derivata degli atti amministrativi impugnati con il conseguente accoglimento del ricorso che altrimenti – alla stregua delle pregresse considerazioni – dovrebbe essere respinto».

La deroga per i contratti e gli incarichi in corso non troverebbe applicazione per l’esercizio in atto di una funzione giurisdizionale togata, in virtù dell’inserimento a pieno titolo in un «plesso giurisdizionale»: da tale funzione esulerebbe ogni carattere di temporaneità.

Sarebbe priva di pregio la censura di violazione dell’art. 3 Cost., con riguardo alla mancata estensione di tale deroga, riferita ai soli rapporti a tempo determinato, di fonte convenzionale, instaurati tra le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati, rapporti che non potrebbero essere equiparati ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato, caratterizzati dall’esercizio di una funzione pubblica di natura giurisdizionale, «assistita dalle garanzie di stabilità e di inamovibilità».

2.2.2.– Il giudice rimettente condivide i rilievi già svolti dalla sezione prima dello stesso Tribunale amministrativo regionale del Lazio, nell’ordinanza iscritta al n. 220 del reg. ord. 2015, in ordine all’infondatezza delle censure di violazione del principio di affidamento e dell’art. 53 Cost.

Quanto al primo aspetto, il Tribunale rimettente sottolinea che, nell’accettare il nuovo incarico, i consiglieri di Stato erano a conoscenza delle disposizioni restrittive, volte a razionalizzare la «c.d.“giungla retributiva”», e non avrebbero certo potuto fare assegnamento su un’eventuale deroga a loro favore.

Per quel che riguarda il secondo profilo, la disciplina in esame, ispirata a finalità di contenimento, trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica, implicherebbe «una progressiva decurtazione, disciplinata ex lege, dei possibili ulteriori redditi al raggiungimento del tetto prefissato», senza operare discriminazioni di sorta. La legge, lungi dall’imporre un prelievo forzoso sulle somme percepite dall’interessato oltre il tetto retributivo, si limiterebbe a imporre un tetto all’erogazione di emolumenti e pensioni a carico della finanza pubblica.

2.2.3.– Il giudice rimettente, disattese tali censure, reputa essenziale, nello scrutinio di legittimità costituzionale, non tanto l’elevata qualità dell’attività svolta da funzionari pubblici di assoluta eccellenza, poiché in tale ottica si potrebbe giustificare un incarico onorario, quanto piuttosto lo svolgimento continuativo di una funzione giurisdizionale, con tutte le prerogative e le responsabilità connesse.

Alla luce di tali premesse, il giudice a quo assume che la disciplina in esame, nel determinare una forte riduzione o un azzeramento della remunerazione della funzione di consigliere di Stato, con una conseguente decurtazione dei contributi previdenziali e del trattamento pensionistico derivante dall’accumulo del montante contributivo, vìoli molteplici parametri costituzionali.

Si profilerebbe, in primo luogo, una violazione dell’art. 3 Cost., in ragione dell’arbitraria disparità di trattamento tra soggetti che svolgono le medesime funzioni, come i consiglieri di Stato per concorso o per nomina governativa.

La disciplina censurata contrasterebbe con l’art. 4 Cost., perché lesiva del diritto al lavoro, e con il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.), in quanto costringerebbe a svolgere «una funzione di cruciale importanza e di grande responsabilità – qual è quella di Consigliere di Stato – percependo una retribuzione esigua o addirittura azzerata».

Non si potrebbero, difatti, considerare «fungibili il trattamento pensionistico per un’attività precedente e il compenso per un’attività in atto, ove consentita nell’ambito dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione».

La normativa in esame violerebbe anche l’art. 38 Cost., poiché la drastica riduzione o l’azzeramento della retribuzione, e quindi della relativa contribuzione, precluderebbero la conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall’ordinamento.

Sarebbero violati anche gli artt. 95 e 97 Cost., in quanto la disciplina condurrebbe a un’organizzazione irragionevole, contraria al buon andamento, «mediante l’indifferenziato affidamento, a titolo oneroso ovvero a titolo gratuito, di funzioni di dichiarata rilevanza, impegno e delicatezza» e distoglierebbe l’indirizzo politico-amministrativo del Governo dal suo approdo più coerente, mortificandone la libera esplicazione.

Da ultimo, il giudice rimettente denuncia il contrasto con gli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., e asseriscono che le limitazioni retributive in esame attentano all’indipendenza degli organi giurisdizionali, tutelata anche per quel che attiene al trattamento economico.

2.3.– Nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 172, 173, 174, 175, 177, 178 e 180 del 2016, il 18 ottobre 2016 si sono costituiti, con separate memorie, M. M., M. Z., A. P., V. S., E. T., P. L.R., C. B. ed altri, parti ricorrenti nei giudizi a quibus, e hanno chiesto, in via principale, di dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale o, in subordine, di accoglierla in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.

Le parti premettono che l’ordinanza di rimessione ricostruisce in maniera esaustiva la vicenda processuale e il quadro normativo di riferimento e motiva in maniera convincente in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Le parti contestano le asserzioni del giudice a quo in ordine all’inapplicabilità della deroga prevista per i contratti e gli incarichi in corso.

Nei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione la legge fisserebbe il limite massimo di età e imporrebbe il collocamento a riposo, quando tale limite sia superato. Pertanto, anche in tali fattispecie, sarebbe possibile individuare una scadenza.

L’interpretazione privilegiata dal giudice rimettente, per contro, vanificherebbe la finalità di prevedere una norma transitoria, idonea ad assicurare la gradualità dell’intervento legislativo e a temperarne l’efficacia retroattiva.

In ragione dei naturali limiti di età, che contraddistinguono il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, non vi sarebbe ragione di distinguere tra incarichi e ruoli “ordinari” e “onorari” o “straordinari”.

Un’interpretazione conforme a Costituzione, atta a salvaguardare la lettera e lo spirito della legge e la gradualità della transizione, consentirebbe alla Corte di pervenire a una pronuncia interpretativa di rigetto.

Ove non si ritenesse praticabile tale strada, la questione dovrebbe essere dichiarata fondata.

La disciplina in esame, difatti, decurterebbe in misura ingente e, in alcuni casi, porterebbe ad azzerare la retribuzione di attività lavorative connotate da elevati livelli qualitativi.

Lo Stato, pur avvalendosi dell’opera altamente qualificata di funzionari che hanno ricoperto incarichi apicali nell’amministrazione statale, pretenderebbe di esimersi dal pagamento della retribuzione.

Gli interessati, al fine di percepire il trattamento pensionistico, frutto di cospicui versamenti contributivi, avrebbero l’unica possibilità di rinunciare all’incarico.

Problematiche, oltre che rivelatrici dell’irragionevolezza della norma, sarebbero le implicazioni della disciplina censurata sulla responsabilità dei giudici, con peculiare riguardo alla misura della rivalsa dello Stato, limitata a una percentuale dello stipendio del magistrato. Lo Stato si vedrebbe preclusa l’azione di rivalsa, se si dovesse attribuire rilievo allo stipendio concretamente percepito dal singolo magistrato, nel caso di specie esiguo o insussistente, o dovrebbe esercitare la rivalsa, in base allo stipendio che astrattamente il magistrato avrebbe percepito.

In un caso, risulterebbe affievolita l’afflittività dell’istituto della responsabilità dei giudici, nell’altro caso si esporrebbe un servitore dello Stato all’azione di rivalsa, senza alcuna contropartita in termini di remunerazione delle funzioni svolte.

Sarebbero lesi anche i princìpi di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione: la nomina governativa di una limitata percentuale dei consiglieri di Stato perseguirebbe l’obiettivo di valorizzare esperienze particolari di amministrazione attiva e, tuttavia, lo Stato, in virtù della disciplina sospettata di illegittimità costituzionale, non potrebbe premiare chi vanti le esperienze più qualificate.

Tale assetto determinerebbe, per un verso, un’arbitraria disparità di trattamento quanto alla retribuzione o alla mancata retribuzione della medesima attività professionale e, per altro verso, un’organizzazione irragionevole, contraria al buon andamento costituzionalmente tutelato.

Altro profilo di disparità di trattamento emergerebbe dalla comparazione tra chi abbia un contratto e un incarico in corso, escluso dall’applicazione della nuova disciplina fino alla scadenza del contratto e dell’incarico, e chi, per contro, debba sopportare l’azzeramento e la grave decurtazione della retribuzione dovuta, sol perché titolare di un rapporto d’ufficio.

La norma censurata, che si risolverebbe in un sacrificio permanente, privo di ogni carattere di gradualità e di proporzionalità e di ogni logica perequativa, violerebbe l’indipendenza dei magistrati, che ha il suo presidio anche nelle garanzie del trattamento economico.

2.3.1.– Il 1° marzo 2017, in vista dell’udienza, le parti costituite hanno depositato distinte memorie per confermare le conclusioni già formulate nell’atto di costituzione e confutare gli argomenti addotti dall’Avvocatura generale dello Stato.

Le parti hanno ribadito che, nel fissare un tetto retributivo riguardante stipendi e pensioni, è precluso al legislatore lasciare prive di ogni retribuzione o retribuire in misura insufficiente prestazioni lavorative «di altissima qualificazione».

La disciplina in esame dissuaderebbe le migliori professionalità dall’accettare la nomina e così priverebbe la pubblica amministrazione di «apporti essenziali, in violazione del principio di buon andamento e con evidenti rischi per la funzionalità dell’Istituto, onerato di compiti sempre più gravosi, ma non dotato di tutte le risorse umane che in astratto dovrebbero spettargli».

Le parti contestano le deduzioni dell’Avvocatura generale dello Stato con riguardo all’inammissibilità delle censure di violazione degli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.: lungi dall’essere generica, la prospettazione dei giudici rimettenti sarebbe corredata da notazioni pertinenti ed esaustive, coerenti con la giurisprudenza costituzionale.

Non sussisterebbe alcuna ragione di inammissibilità, legata alla tipologia dell’intervento richiesto, che è meramente ablativo e non invade lo spazio riservato alla discrezionalità legislativa.

Le parti argomentano, inoltre, che occorre privilegiare un’interpretazione idonea ad armonizzare la norma censurata con i parametri costituzionali invocati.

La deroga prevista per i contratti e gli incarichi in corso sarebbe applicabile anche al caso in esame, in quanto la formula adoperata dal legislatore suona come un’endiadi e ricomprende «ogni tipo di rapporto alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica, quale che sia la veste formale ch’esso assume (rapporto di lavoro contrattualizzato, rapporto di servizio in regime di diritto pubblico, incarico temporaneo o a tempo indeterminato, etc.)».

La deroga dovrebbe applicarsi indistintamente al pubblico impiego privatizzato e al pubblico impiego non privatizzato, come traspare anche dal parallelismo con l’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, che menziona i rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni, nell’àmbito del pubblico impiego privatizzato, e il personale in regime di diritto pubblico del pubblico impiego non privatizzato.

A favore di tale interpretazione militerebbe la stessa formulazione testuale della norma, che si applica ai trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche e comprende così tutti i trattamenti in questione «a prescindere dalla fonte generatrice del rapporto di lavoro o di impiego».

Peraltro, all’atto di accettazione della nomina, non erano stati ancora introdotti i limiti retributivi in questione, che hanno inciso in modo improvviso e imprevedibile su rapporti di durata.

L’Avvocatura generale dello Stato, pur non contestando che la norma disincentivi le migliori professionalità dall’accettare la nomina a consigliere di Stato e che la nomina a consigliere di Stato derivi dalla valutazione delle attitudini a svolgere una determinata funzione, non trarrebbe da tale affermazione «le doverose e logiche conseguenze».

Le parti soggiungono che, secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, la piena funzionalità dell’istituto richiede un tendenziale equilibrio tra la componente di provenienza concorsuale e quella di nomina governativa.

L’Avvocatura generale dello Stato, inoltre, non considera che la norma censurata, nella misura in cui disciplina il cumulo di trattamenti retributivi e previdenziali, produce l’effetto di limitare in via generale e diretta il trattamento economico o previdenziale connesso allo svolgimento di qualsiasi tipo di attività.

In tal modo, la retribuzione «di attività lavorative connotate da elevatissimi standard qualitativi, svolte da funzionari pubblici in possesso di un grado di preparazione di assoluta eccellenza», sarebbe sottoposta a ingenti decurtazioni o finanche azzerata, con conseguente pregiudizio per i consiglieri di nomina governativa.

Sia che incida sul trattamento retributivo, com’è avvenuto nel caso di specie, sia che operi sul trattamento pensionistico già maturato, vanificando i cospicui versamenti contributivi operati per un periodo particolarmente lungo, la decurtazione in esame si rivelerebbe comunque lesiva degli artt. 3, 36 e 38 Cost.

Non può sostenersi, come parrebbe adombrare l’Avvocatura generale dello Stato, che la tutela costituzionale delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici non trovi applicazione per le retribuzioni e i trattamenti pensionistici più alti, sottoposti a straordinari versamenti di carattere solidaristico, come di fatto è avvenuto.

Il regime del cumulo, inoltre, non sarebbe strutturato in modo ragionevole, visto che potrebbe condurre all’azzeramento della retribuzione.

Le parti, da ultimo, rilevano che le decurtazioni censurate, prive di ogni carattere di gradualità e di proporzionalità, incidono in peius sul trattamento retributivo spettante ai magistrati, compromettendone l’autonomia e l’indipendenza.

2.4.– Nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179 e 180 del 2016 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sulla base degli argomenti illustrati anche nei giudizi promossi dai consiglieri della Corte dei conti di nomina governativa (cfr. retro punto 1.9.).

L’atto di intervento sottolinea la diversità dell’incarico di consigliere di Stato di nomina governativa rispetto all’incarico di consigliere di Stato per concorso e soggiunge che il tetto retributivo è posto a un livello così elevato da escludere la violazione dei princìpi in materia retributiva e previdenziale.

3.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, con ordinanza iscritta al n. 211 del reg. ord. 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 100, 101, 104 e 108 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89.

3.1.– Il Tribunale rimettente è chiamato a decidere sul ricorso proposto da F. I., che ha chiesto l’accertamento del diritto a cumulare per intero, o nella misura ritenuta di giustizia, il trattamento economico annuo spettante ai magistrati ordinari alla settima valutazione di professionalità e la speciale indennità pensionabile di cui all’art. 5, terzo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), correlata all’incarico di capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ricoperto dal 4 agosto 2008 al 16 febbraio 2012.

Il ricorrente ha contestato le decurtazioni operate in applicazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, dell’art. 1, commi 458, 459, 471 e 473, della legge n. 147 del 2013, e dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014.

In particolare, il ricorso verte sulla decurtazione del trattamento economico annuo, in applicazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, e sull’interruzione della corresponsione dell’assegno pensionabile relativo alla speciale indennità prevista dall’art. 5, terzo comma, della legge n. 121 del 1981.

Il ricorrente, a fondamento dell’impugnazione, ha dedotto che la limitazione, prevista dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, configura un prelievo obbligatorio sulle retribuzioni, lesivo degli artt. 3 e 53 Cost., in quanto idoneo a costituire una decurtazione patrimoniale definitiva a carico dei soli dipendenti pubblici.

Tale decurtazione, destinata a ripercuotersi sulle retribuzioni e sulle indennità già maturate, vanificherebbe il legittimo affidamento e, lungi dal porsi come misura graduale e progressiva, si risolverebbe in un «taglio della retribuzione improvviso e arbitrario», privo di «finalità perequativa o armonizzatrice dei trattamenti economici toccati», in violazione degli artt. 3, 4, 36 e 38 Cost.

La decurtazione confliggerebbe con il diritto al lavoro e con il diritto a una retribuzione «proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto» e lederebbe anche l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, tutelata dagli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.

Il ricorrente ha lamentato l’erronea applicazione dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013, riguardante esclusivamente gli impiegati civili dello Stato e non la peculiare categoria dei magistrati.

L’amministrazione si è costituita in giudizio per affermare la legittimità e la doverosità del suo operato.

Il Tribunale rimettente espone che il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 308 del 29 gennaio 2016, ha riformato l’ordinanza cautelare emessa in prime cure l’8 ottobre 2015 (ordinanza n. 4261 del 2015), che ha rigettato la domanda incidentale di sospensione degli atti impugnati.

Il Consiglio di Stato, in sede di gravame, ha ritenuto di apprezzare favorevolmente le esigenze dell’appellante, trasmettendo gli atti al giudice di primo grado ai fini della sollecita fissazione dell’udienza di merito e del compiuto esame delle questioni di legittimità costituzionale, ritenute dal Consiglio di Stato rilevanti e non manifestamente infondate.

3.2.– Il giudice a quo, poste tali premesse, osserva che occorre distinguere le doglianze che investono la violazione dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013 e che necessitano di approfondimenti istruttori, dai dubbi di legittimità costituzionale concernenti l’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 e l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014.

Le questioni di legittimità costituzionale riguardanti tali ultime previsioni, che hanno ad oggetto «disposizioni normative logicamente indipendenti», «suscettibili di essere trattate in modo disgiunto e autonomo», sarebbero rilevanti, in quanto i provvedimenti impugnati «trovano un’indefettibile base normativa» nelle norme citate e sarebbero travolti per effetto di una pronuncia di accoglimento.

3.3.– Il giudice rimettente, in primo luogo, disattende le censure incentrate sulla violazione del principio di affidamento e degli artt. 3 e 53 Cost.

Il tetto economico risponderebbe «agli obiettivi d’interesse pubblico generale lasciati alla discrezionalità dei singoli Stati quanto al contenimento, alla trasparenza ed alla congruità della spesa pubblica, nel quadro dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione e dei principi di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.» e non lederebbe alcun affidamento meritevole di tutela.

Inoltre, ad avviso del Tribunale rimettente, la decurtazione dei redditi, superiori al limite predeterminato dalla legge, non integra un’imposizione fiscale e un prelievo forzoso.

Il giudice a quo assume che la disciplina degli artt. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 e dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, nello stabilire un tetto massimo agli emolumenti e una consistente decurtazione della remunerazione che spetta al ricorrente come giudice ordinario e una conseguente decurtazione del diritto al trattamento di fine servizio e pensionistico, contrasti con disparati precetti della Carta fondamentale.

Il giudice rimettente ravvisa una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza.

Lo Stato, pur scegliendo di avvalersi dell’apporto professionale del ricorrente, irragionevolmente si “auto-esonera” dal pagamento della retribuzione, senza porre alcuna deroga a tale tetto, «malgrado l’elevatissimo standard professionale raggiunto in ragione della delicatezza e dell’impegno delle funzioni da svolgere», e senza prevedere «una opzione per funzioni più limitate e retribuite in minor misura, oppure del tutto onorarie e gratuite».

Sarebbe violato anche l’art. 4 Cost., poiché il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comprimerebbe il diritto al lavoro.

Le norme censurate contrasterebbero con l’art. 36 Cost., in quanto, nel ridurre notevolmente la remunerazione dell’esercizio della funzione di giudice ordinario, lederebbero il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Il giudice rimettente denuncia anche il contrasto con l’art. 38 Cost., poiché «la drastica riduzione della retribuzione – e quindi della relativa contribuzione – precludono la conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall’ordinamento».

Da ultimo, il TAR rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina con riferimento agli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., in quanto le norme censurate pregiudicherebbero l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, tutelate anche con riguardo al trattamento economico.

3.4.– Con memoria del 15 novembre 2016, si è costituito in giudizio F. I. e ha chiesto di accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio.

Le norme censurate, nel determinare una decurtazione del trattamento retributivo e di quello pensionistico, sarebbero prive di ogni finalità di armonizzazione e perequazione e di ogni carattere di gradualità e di progressività: da tali caratteristiche scaturisce l’irragionevolezza della previsione censurata, lesiva di diritti soggettivi perfetti, tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.

La parte paventa il rischio che le norme impugnate, in contrasto con l’art. 97 Cost., distolgano «le migliori professionalità» dall’impiego pubblico, che vedrebbe così scemare la capacità di attrarre le eccellenze.

La norma, peraltro, destinata a pregiudicare la sola posizione dei dipendenti pubblici, sarebbe foriera di disparità di trattamento e porrebbe a repentaglio anche l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

La parte soggiunge che l’indennità legata all’incarico di direttore dell’amministrazione penitenziaria non è un privilegio, ma vale a compensare la gravosità e i rischi del peculiare ufficio ricoperto.

3.4.1.– Nel giudizio è intervenuto, il 15 novembre 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale.

La difesa dello Stato evidenzia che l’ordinanza di rimessione non specifica in quale modo la nuova normativa incida sulla situazione del ricorrente e ritiene pertanto inammissibile la questione, per omessa motivazione sulla rilevanza.

Il superamento del limite retributivo di euro 240.000,00 annui si registrerebbe soltanto per l’indennità che il ricorrente percepisce come capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: tale indennità, tuttavia, sarebbe stata soppressa per effetto dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013.

Ove il Tribunale rimettente dovesse concludere per la legittimità di tale eliminazione, la questione di legittimità costituzionale diventerebbe priva di rilevanza, in quanto lo stipendio spettante al ricorrente si collocherebbe ben al di sotto del tetto retributivo di 240.000,00 euro.

La questione sarebbe rilevante soltanto se al ricorrente spettasse l’indennità di capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma tali profili non emergerebbero nell’ordinanza di rimessione.

Non sarebbe pertinente il richiamo alle altre ordinanze di rimessione del Tribunale amministrativo per il Lazio, che riguardano la peculiare vicenda dei consiglieri di Stato e della Corte dei conti di nomina governativa, già titolari di pensioni pubbliche, e la fattispecie del cumulo tra pensione e reddito.

Peraltro, tali ordinanze avrebbero reputato legittimo un limite di carattere generale ai compensi erogati a carico delle finanze pubbliche, limitandosi a censurare la persistente vigenza di tale limite anche nel caso di contemporanea spettanza di un trattamento pensionistico.

Le censure di violazione degli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost. sarebbero inammissibili, in quanto formulate in termini generici.

3.5.– Nell’approssimarsi dell’udienza, il 1° marzo 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria illustrativa, in cui ha confermato le conclusioni già formulate in ordine all’inammissibilità e, in subordine, all’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Quanto all’inammissibilità, la difesa dello Stato ribadisce che la causa relativa alla legittimità della soppressione dell’assegno ad personam non è stata ancora decisa dal Tribunale rimettente. Nel caso di rigetto del ricorso su tale punto, la questione di legittimità costituzionale sarebbe irrilevante, poiché il ricorrente non supererebbe il tetto retributivo di 240.000,00 euro.

La questione non sarebbe comunque fondata. Secondo la stessa giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 153 del 2015), le norme impugnate sono riconducibili a un più ampio intervento di revisione della spesa pubblica e si pongono come princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica.

Non sussisterebbe la violazione degli artt. 36 e 38 Cost., poiché la congruità del trattamento retributivo, che si riflette anche sull’adeguatezza del trattamento previdenziale, deve essere valutata nel suo complesso e non già con riguardo alle singole voci.

Inoltre, la norma censurata, che ha inciso solo sull’assegno percepito dal ricorrente come capo dell’amministrazione penitenziaria, non avrebbe in alcun modo compromesso l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

4.– All’udienza pubblica, le parti hanno chiesto l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle memorie scritte.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con venti ordinanze, undici delle quali (iscritte al reg. ord. 2015 dal n. 220 al n. 230) emesse in giudizi promossi da consiglieri della Corte dei conti, e nove (iscritte al reg. ord. 2016 dal n. 172 al n. 180) emesse in giudizi promossi da consiglieri di Stato di nomina governativa, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», in riferimento a molteplici parametri della Carta fondamentale.

La norma censurata vieta alle amministrazioni e agli enti pubblici di erogare, a beneficio di soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, superino il limite di 240.000,00 euro annui.

La disciplina include anche i vitalizi fra i trattamenti pensionistici e si estende agli organi costituzionali, che ne attuano i princìpi «nel rispetto dei propri ordinamenti».

Al limite in esame non sono assoggettati «i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza».

Il giudice rimettente, disattese le eccezioni di illegittimità costituzionale fondate sul contrasto con il principio di affidamento e con l’art. 53 Cost., assume che la normativa, recata dalla legge n. 147 del 2013, vìoli il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).

Lo Stato, pur giovandosi del qualificato apporto professionale dei consiglieri della Corte dei conti e del Consiglio di Stato di nomina governativa, sceglierebbe irragionevolmente di «auto-esonerarsi» dal pagamento della retribuzione, sol perché i giudici designati già percepiscono un trattamento previdenziale in relazione a una pregressa attività di lavoro.

Le censure si appuntano anche sull’ingiustificata disparità di trattamento tra consiglieri vincitori di concorso e consiglieri di nomina governativa: a parità di attribuzioni e competenze, la norma censurata discriminerebbe i consiglieri di Stato e della Corte dei conti di nomina governativa, esposti al rischio di non essere retribuiti, in ragione del trattamento pensionistico ad altro titolo goduto, rispetto ai consiglieri vincitori di concorso, regolarmente retribuiti.

Una disciplina così congegnata lederebbe il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.), poiché considera fungibili, in contrasto con il precetto costituzionale, «il trattamento pensionistico per un’attività precedente e il compenso per un’attività in atto, ove consentita nell’ambito dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione».

La retribuzione non potrebbe essere determinata in base all’ammontare della pensione maturata per una precedente attività professionale, elemento privo di ogni attinenza con il parametro della quantità e della qualità del lavoro svolto.

Il giudice rimettente denuncia il contrasto con l’art. 38 Cost., in quanto la drastica riduzione o l’azzeramento della contribuzione comprometterebbero la tutela assistenziale e previdenziale garantita dall’ordinamento in rapporto alla retribuzione concretamente percepita.

La normativa sospettata di illegittimità costituzionale si porrebbe in contrasto anche con il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), poiché sarebbe all’origine di «una irragionevole organizzazione contraria al buon andamento amministrativo mediante l’indifferenziato affidamento, a titolo oneroso ovvero a titolo gratuito, di funzioni di dichiarata rilevanza, impegno e delicatezza».

Nei giudizi instaurati dai consiglieri di Stato di nomina governativa, il Tribunale rimettente, nel recepire le eccezioni formulate dalle parti, ravvisa la violazione dell’art. 95 Cost., evocato congiuntamente con l’art. 97 Cost.: l’indirizzo politico-amministrativo del Governo, che si esprime nella nomina dei consiglieri di Stato e della Corte dei conti e nella scelta delle persone più idonee a ricoprire l’incarico, sarebbe «distolto dal suo approdo più coerente e mortificato nella libertà della sua esplicazione».

In tutte le ordinanze il giudice rimettente prospetta, da ultimo, il contrasto con gli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., alla luce dell’incidenza della normativa censurata sulla retribuzione spettante per l’esercizio della funzione giurisdizionale: l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sarebbero presidiate anche per quel che attiene al trattamento retributivo, e la Carta fondamentale, a tale riguardo, precluderebbe ogni interferenza indebita.

2.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con l’ordinanza iscritta al n. 211 del registro ordinanze 2016, dubita della legittimità costituzionale delle norme riguardanti il “tetto retributivo” nel comparto pubblico, racchiuse nell’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e nell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89.

Il Tribunale rimettente, adìto da un magistrato ordinario che era stato a capo dell’amministrazione penitenziaria, censura le limitazioni al trattamento economico annuo onnicomprensivo del personale, anche in regime di diritto pubblico, che intrattenga rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali.

L’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 pone come limite invalicabile, per gli emolumenti e le retribuzioni a carico delle finanze pubbliche, il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione, oggi determinato in 240.000,00 euro annui, al lordo di contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali destinati a gravare sul dipendente (art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014).

Il giudice a quo argomenta che tale limitazione riduce notevolmente «la remunerazione dell’esercizio della funzione di giudice ordinario», in contrasto con l’art. 36 Cost., che prescrive la proporzione tra la retribuzione corrisposta e la quantità e la qualità del lavoro prestato.

La disciplina restrittiva, inoltre, produrrebbe una «corrispondente decurtazione del trattamento di fine servizio e pensionistico». La riduzione della retribuzione sarebbe di ostacolo alla «implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall’ordinamento», in antitesi con il precetto di adeguatezza, consacrato dall’art. 38 Cost.

Un meccanismo di tal fatta si risolverebbe in «una violazione del diritto al lavoro», tutelato dall’art. 4 Cost.

La scelta dello Stato di avvalersi dell’apporto professionale del ricorrente e, in pari tempo, «di auto-esonerarsi» dal pagamento della retribuzione, a dispetto dell’elevatissimo «standard professionale raggiunto in ragione della delicatezza e dell’impegno delle funzioni da svolgere», sarebbe «costituzionalmente irragionevole».

Ad avviso del giudice rimettente, le ripercussioni della norma censurata sulla retribuzione minano le garanzie di autonomia e di indipendenza della magistratura, estese anche al trattamento retributivo.

3.– I giudizi, in quanto hanno ad oggetto questioni inscindibilmente connesse e parametri costituzionali in larga parte coincidenti, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

4.– Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dai Tribunali rimettenti, non incorrono nei profili di inammissibilità, segnalati dalle parti.

5.– La questione di legittimità costituzionale, riguardante il cumulo tra pensioni e retribuzioni, non presenta i profili di inammissibilità prospettati – in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza – nelle memorie di costituzione delle parti e nell’atto di intervento.

5.1.– È prioritario l’esame dell’eccezione proposta dalle parti costituite nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 172, 173, 174, 175, 177, 178 e 180 del 2016.

All’esito di un articolato percorso argomentativo, le parti pervengono alla conclusione che la norma censurata sia inapplicabile e che operi la deroga prevista per i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza.

L’assunto non può essere condiviso.

L’esclusione della deroga, sancita per i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza, attiene al profilo della rilevanza della questione di legittimità costituzionale.

Se operasse la deroga, invocata dalle parti, non verrebbe in rilievo la disciplina restrittiva del cumulo tra pensioni e retribuzioni e la questione di legittimità costituzionale, sollevata dai Tribunali rimettenti, sarebbe irrilevante.

Trattandosi di profilo inerente alla rilevanza, questa Corte non è chiamata a sindacare la fondatezza delle diverse interpretazioni che si contendono il campo, ma soltanto a valutare se sia implausibile la premessa ermeneutica dalla quale muovono i giudici a quibus per avvalorare la rilevanza del dubbio di legittimità costituzionale.

I giudici rimettenti muovono dal presupposto che l’esenzione sancita per i contratti e gli incarichi in corso abbia una portata precettiva precisa, circoscritta ai rapporti intrinsecamente temporanei. La clausola non si applicherebbe, dunque, a un rapporto di ufficio, tendenzialmente stabile e svincolato da un termine di durata precostituito.

Quanto alla discriminazione che tale lettura determinerebbe tra rapporti di ufficio e contratti e incarichi temporanei, i giudici rimettenti si fanno carico delle obiezioni mosse dalle parti e ritengono censurabile non già il più rigoroso regime previsto per i rapporti di ufficio, ma la salvaguardia disposta dal legislatore per i contratti e gli incarichi in corso, proprio in ragione dell’elemento distintivo della loro temporaneità.

Per corroborare l’interpretazione prescelta, essi pongono l’accento sull’accezione tecnica puntuale della dizione “contratti e incarichi in corso”, che vale a differenziarli rispetto al rapporto d’ufficio, assistito da peculiari garanzie di stabilità.

Da questo angolo visuale, il concetto di incarico, significativamente accostato al vocabolo “contratto”, evocherebbe, anche secondo il significato proprio delle parole (art. 12 delle preleggi), una prospettiva di temporaneità. La scadenza dell’incarico, indicata nell’incarico stesso, differisce dalla durata massima legale di un rapporto di ufficio, determinata in ragione dei limiti d’età di volta in volta stabiliti dalla legge.

Alla luce di tale ampio percorso ricostruttivo, motivato in modo esauriente e attento alle contrapposte prospettazioni delle parti, non si può ritenere implausibile la premessa ermeneutica dei giudici rimettenti, che fonda la motivazione sulla rilevanza.

5.2.– Attengono al profilo della rilevanza anche le eccezioni formulate dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), costituitosi nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 221, 222 e n. 228 del 2015.

L’ente previdenziale sottolinea che l’accoglimento della questione non avrebbe alcun riflesso sui giudizi a quibus, in quanto i ricorrenti già percepiscono trattamenti previdenziali superiori al limite previsto nel comparto pubblico e l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale non potrebbe apportare alcuna utilità concreta in ordine all’ammontare del trattamento previdenziale percepito.

Neppure tale eccezione è fondata.

Il nucleo delle censure risiede nel fatto che i ricorrenti, proprio per effetto della disciplina censurata, che impedisce di cumulare pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche oltre il tetto di 240.000,00 euro lordi annui, non beneficino di alcuna retribuzione per le funzioni di consiglieri della Corte dei conti e del Consiglio di Stato.

Le previsioni limitative indicate intaccano la retribuzione per le funzioni attualmente svolte e non già il trattamento previdenziale.

Ove il limite censurato fosse rimosso, sarebbe possibile cumulare integralmente, così come auspicano i ricorrenti, le pensioni già maturate e le retribuzioni per la funzione giurisdizionale svolta.

Tali considerazioni confermano la rilevanza della questione sollevata.

5.3.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione sotto un diverso profilo, che investe la natura manipolativa dell’intervento richiesto a questa Corte.

I giudici rimettenti, nel porre in risalto il carattere indiscriminato del tetto tra pensioni e retribuzioni, lamentano che il legislatore non abbia contemplato deroghe e opzioni graduali, modulate anche sulla base dell’esercizio di funzioni più limitate o retribuite in misura più esigua.

A dire dell’Avvocatura generale dello Stato, le censure, nei termini in cui sono formulate, sconfinano nello spazio riservato alla discrezionalità legislativa, chiamata a modulare la disciplina e a graduarne gli effetti, se necessario attraverso la previsione di ipotesi intermedie.

Anche quest’eccezione deve essere disattesa.

I giudici rimettenti, pur esplorando la praticabilità di una disciplina più flessibile, sollecitano a questa Corte un intervento teso a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma censurata e non a manipolarne il contenuto in modo non costituzionalmente obbligato (in termini analoghi, sentenza n. 16 del 2017, punto 5.2. del Considerato in diritto).

5.4.– L’Avvocatura generale dello Stato ravvisa un ulteriore profilo di inammissibilità nella carenza della motivazione sulla non manifesta infondatezza, con riguardo alla violazione degli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.

Neppure tale eccezione può essere accolta.

Le censure, formulate dai giudici a quibus in termini tutt’altro che assertivi e generici, sono suffragate dal richiamo alla giurisprudenza di questa Corte (le sentenze n. 223 del 2012 e n. 1 del 1978), che ha approfondito i rapporti tra l’autonomia e indipendenza della magistratura e la disciplina del trattamento retributivo.

6.– Anche la questione di legittimità costituzionale del limite alle retribuzioni pubbliche, sollevata con l’ordinanza iscritta al n. 221 del reg. ord. 2016, si sottrae alle eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.

6.1.– Quest’ultima ha eccepito, in primo luogo, l’irrilevanza della questione proposta.

Il superamento del tetto retributivo verrebbe in rilievo soltanto se si accertasse che al ricorrente spetta un’indennità per il precedente ruolo di capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma il giudice a quo avrebbe tralasciato proprio la disamina di tale profilo.

Se il TAR rimettente, all’esito dell’istruttoria, ritenesse legittima la soppressione dell’indennità, non si applicherebbero i limiti retributivi, posti dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011.

L’eccezione non è fondata.

Dagli antecedenti di fatto, ripercorsi dal giudice rimettente, si può evincere che il provvedimento impugnato si fonda su molteplici ragioni, che attengono alla spettanza dell’indennità di capo dell’amministrazione penitenziaria, oggetto di autonome doglianze, e, in pari tempo, all’applicazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011.

Si deve concludere, pertanto, che le questioni di legittimità riguardanti l’art. 23-ter, e le successive specificazioni dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, rivestono natura pregiudiziale. Tali norme sono il presupposto dei provvedimenti impugnati e devono essere necessariamente applicate per decidere sul ricorso (sentenza n. 203 del 2016, punto 3. del Considerato in diritto).

Il percorso argomentativo del giudice rimettente non può ritenersi implausibile, poiché la norma censurata costituisce antecedente necessario per dirimere la controversia.

6.2.– L’Avvocatura generale dello Stato imputa al giudice rimettente di non aver motivato in modo esaustivo i dubbi di legittimità costituzionale, limitandosi a richiamare, senza alcun vaglio critico, gli argomenti delle ordinanze di rimessione, relative alla diversa fattispecie del cumulo tra pensioni e retribuzioni.

L’eccezione non coglie nel segno.

Il giudice a quo, pur prendendo le mosse dalle precedenti ordinanze di rimessione in tema di cumulo tra retribuzioni e pensioni, ha svolto a sostegno delle censure una motivazione autonoma e adeguata, che sfugge ai rilievi di inammissibilità enunciati nell’atto di intervento.

6.3.– Quanto alle lacune della motivazione circa la non manifesta infondatezza per contrasto con gli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., i rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato devono essere disattesi, in virtù delle considerazioni già enunciate nell’esame di un’eccezione analoga (retro punto 5.4. del Considerato in diritto).

Si deve ribadire, anche con riguardo all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 211 del 2016, che il giudice rimettente avvalora le censure con il richiamo della pertinente giurisprudenza di questa Corte (le citate sentenze n. 223 del 2012 e n. 1 del 1978) e le illustra con argomenti che non possono definirsi insufficienti o apodittici.

7.– Le questioni di legittimità costituzionale, pertanto, possono essere scrutinate nel merito e in modo unitario, poiché unitaria è la matrice delle norme censurate, pur nella particolarità che le contraddistingue.

Esse non sono fondate.

8.– Occorre muovere, in via prioritaria, dall’analisi della disciplina del limite massimo alle retribuzioni (artt. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 e 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014), censurata con l’ordinanza iscritta al n. 211 del reg. ord. 2016. Tale disciplina, difatti, rappresenta il paradigma generale, cui ricondurre anche le previsioni in tema di cumulo tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche.

8.1.– La disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente.

8.2.– Il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

Anche la disciplina del cumulo tra pensioni e retribuzioni «interferisce con molteplici valori di rango costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all’effettivo stato di bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro (art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano» (sentenza n. 241 del 2016, punto 5. del Considerato in diritto).

8.3.– Nel settore pubblico non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole.

In tale ottica, si richiede il rispetto di requisiti rigorosi, che salvaguardino l’idoneità del limite fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate.

8.4.– L’indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge con i princìpi appena richiamati.

La disciplina in esame, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo. Pertanto, la circostanza che la relazione tecnica non computi i risparmi attesi non è di per sé sintomatica dell’irragionevolezza della norma.

Le molteplici variabili in gioco precludono una valutazione preventiva ponderata e credibile. Non a caso, nel dibattito parlamentare, che prelude all’approvazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, si è attribuito alla norma censurata un impatto quantificabile solo «a consuntivo».

L’impossibilità di quantificare preventivamente la riduzione della spesa non implica, tuttavia, l’insussistenza di tali effetti, da stimare nella lunga durata, e non contraddice la ratio dell’intervento normativo, volto a perseguire obiettivi di interesse generale.

In questa prospettiva si deve considerare il vincolo di destinazione che il legislatore imprime alle risorse derivanti dall’applicazione delle norme censurate, stabilendo che siano destinate annualmente al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilità speciale di tesoreria.

La disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche, peraltro, si configura come misura di contenimento della spesa, assimilabile agli altri capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli àmbiti più disparati (decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122; decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11; decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135; decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale», convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89; decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari», convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114).

Tale contenimento della spesa è avallato dalla Corte dei conti nella Relazione sul lavoro pubblico dell’anno 2012. L’imposizione di un limite massimo alle retribuzioni pone rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d’essere, fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell’amministrazione.

Inoltre, sin dalle prime applicazioni, riferibili all’art. 3, commi 43 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», le disposizioni sui limiti retributivi si affiancano ad obblighi penetranti di pubblicità degli incarichi. Il contenimento della spesa non è mai perseguito quale fine in sé, ma in concomitanza con obiettivi a più ampio spettro, che mirano a rendere trasparente la gestione delle risorse pubbliche.

La disciplina oggi scrutinata persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate.

8.5.– La non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi (sentenza n. 153 del 2015, con riguardo all’imposizione di tale limite alle autonomie territoriali).

Il limite retributivo, dapprima riferito alle amministrazioni statali, in base all’art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2008)», ha via via attratto nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali, le autorità amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e 475, della legge n. 147 del 2013), le società partecipate in via diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del d.l. n. 66 del 2014).

Infine, a conferma di tale linea evolutiva della legislazione, il limite massimo retributivo di 240.000 euro annui è stato esteso anche agli amministratori, al personale dipendente, ai collaboratori e ai consulenti del soggetto affidatario della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198, recante «Istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria e dell’emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Procedura per l’affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale»).

L’elemento della valenza generale è stato già considerato da questa Corte di importanza dirimente nel vaglio di altre misure (sentenze n. 178 del 2015 e n. 310 del 2013).

La portata generale della disciplina, che non si indirizza specificamente alla magistratura, quale «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.), e non mira a delinearne il rapporto con lo Stato nei termini di una mera dialettica contrattuale o a compromettere le garanzie di una retribuzione adeguata all’importanza della funzione svolta (sentenza n. 223 del 2012), fa perdere consistenza alle censure di violazione dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giurisdizionale.

A fronte di una disciplina che persegue obiettivi generali di razionalizzazione dell’intero comparto pubblico e individua il limite ai compensi nella retribuzione del Primo Presidente della Cassazione, non si ravvisa alcuna indebita interferenza con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, presidiate dalla Carta fondamentale anche per quel che attiene agli aspetti retributivi (sentenza n. 1 del 1978).

8.6.– Tale limite, costante sin dagli esordi delle discipline restrittive – art. 1, comma 593, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2007)» – è oggi ancorato a un parametro fisso (240.000 euro annui), svincolato dal mutevole cursus honorum della persona chiamata di volta in volta a ricoprire la carica di Primo Presidente. La conformazione della disciplina, che supera l’aleatorietà di un parametro imprevedibile, rivela l’intenzione del legislatore di porre un limite generale, conoscibile ex ante, tale da assicurare una sollecita – e tendenzialmente stabile – pianificazione delle risorse.

Il limite, così previsto dal legislatore, non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l’apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate.

Nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell’economia.

9.– Neppure le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 sono fondate.

9.1.– La non irragionevolezza delle scelte operate dal legislatore si riscontra anche con riguardo alla disciplina del cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, che rappresenta lo sviluppo della disciplina del limite retributivo fin qui esaminata.

La norma in esame si armonizza con altre misure di contenimento dei trattamenti economici nel settore pubblico e si contraddistingue per la particolare latitudine. Essa si rivolge alla vasta categoria delle amministrazioni inserite nell’elenco ISTAT e menziona anche gli organi costituzionali, chiamati ad attuarla nel rispetto dei propri ordinamenti.

Dal punto di vista oggettivo, la norma censurata include tutte le pensioni erogate nell’àmbito di gestioni previdenziali obbligatorie, gli stessi vitalizi e tutte le voci del trattamento economico (stipendi, altre voci del trattamento fondamentale, indennità, voci accessorie, eventuali remunerazioni per consulenze, incarichi o collaborazioni a qualsiasi titolo conferiti a carico di uno o più organismi o amministrazioni enumerati nell’elenco ISTAT).

Qualora il limite di 240.000,00 euro annui sia superato, la riduzione dovrà essere operata dall’amministrazione che eroga il trattamento economico e non dall’amministrazione che si occupa del trattamento previdenziale.

Le censure si incentrano sulla violazione dell’art. 36 Cost., che determinerebbe, di riflesso, una violazione anche dell’art. 38 Cost. In questa prospettiva, il contrasto con il principio di ragionevolezza, di buon andamento dell’amministrazione, la lesione del diritto al lavoro, il vulnus all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, corroborano tale censura, che rappresenta il fulcro delle argomentazioni delle ordinanze di rimessione pervenute a questa Corte.

9.2.– Anche con riguardo al cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, il legislatore è chiamato a garantire una tutela sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali in gioco. In questo orizzonte si colloca anche il principio di proporzionalità tra la retribuzione e la quantità e la qualità del lavoro prestato.

È pur vero che può corrispondere ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità particolarmente qualificate, che già fruiscono di un trattamento pensionistico.

Tuttavia, il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva – e modellata su un parametro prevedibile e certo – delle risorse che l’amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni.

Tale ratio ispira, del resto, anche le disposizioni dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, che vietano l’attribuzione di incarichi di studio o di consulenza ai lavoratori pubblici o privati collocati in quiescenza e a tali lavoratori consente di ricoprire incarichi dirigenziali o direttivi o in organi di governo delle amministrazioni solo a titolo gratuito.

Il principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto deve essere valutato, dunque, in un contesto peculiare, che non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico.

Inquadrata in queste più ampie coordinate e ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, la norma censurata attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

9.3.– Anche le censure, prospettate con riguardo agli ulteriori profili, sono prive di fondamento.

L’assetto prefigurato dal legislatore con la legge di stabilità 2014 è tale da non sacrificare in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro del pensionato, libero di esplicarsi nelle forme più convenienti.

La disciplina censurata non compromette l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, in virtù della portata generale che la contraddistingue, e non ingenera di per sé arbitrarie discriminazioni tra i consiglieri di Stato e della Corte dei conti di nomina governativa e i consiglieri per concorso, alla luce degli argomenti già illustrati nell’esame delle questioni inerenti al limite retributivo.

Dal thema decidendum, sottoposto al vaglio di questa Corte, esulano i profili di irragionevolezza della disciplina della rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati, denunciati dalle parti costituite nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 172, 173, 174, 175, 177, 178 e 180 del 2016. Si tratta, invero, di aspetti ulteriori rispetto a quelli censurati nelle ordinanze di rimessione, che circoscrivono il thema decidendum devoluto all’esame di questa Corte, e peraltro estranei al tema controverso nei giudizi principali, che non riguarda la responsabilità civile dei giudici ricorrenti.

9.4.– Nulla esclude che il legislatore, in un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, prefiguri soluzioni diverse e moduli in senso più duttile il cumulo tra pensioni e retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa, con una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo delle discipline restrittive oggi sottoposte allo scrutinio di questa Corte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, con l’ordinanza iscritta al n. 211 del registro ordinanze 2016;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., con le ordinanze iscritte ai numeri da 220 a 230 del registro ordinanze 2015 e ai numeri da 172 a 180 del registro ordinanze 2016.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2017.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2017.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

 

La Redazione

Autore: La Redazione

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