Articolo: La prescrizione dei crediti da lavoro

approfondimento di Eufranio Massi per The world of il Consulente (n. 106 – anno X – febbraio 2020)

 

LA PRESCRIZIONE DEI CREDITI DA LAVORO

Una recente nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la n. 595 del 23 gennaio 2020, offre lo spunto per una breve riflessione sulla prescrizione dei crediti retributivi: con tale lettera vengono inviate agli ispettori del lavoro indicazioni uniformi su come comportarsi nei casi in cui, in presenza di una diffida accertativa per crediti patrimoniali ex art. 12 del D.L.vo n. 124/2004, si dovessero trovare di fronte a questioni riguardanti la prescrizione.

L’INL, preso atto di un comportamento difforme all’interno della stessa Magistratura, dopo le novità introdotte in materia di licenziamenti dal D.L.vo n. 23/2015, ricorda agli ispettori di non immischiarsi in valutazioni relative alla c.d. “sudditanza psicologica”, cosa che spetta al giudice di esaminare, se adito, ma di limitarsi al mero riscontro temporale dei cinque anni (è il termine che viene richiamato per la maggior parte delle rivendicazioni economiche), magari prendendo in considerazione un eventuale atto interruttivo della prescrizione presentato dal lavoratore e facendo, quindi, decorrere il termine per il computo quinquennale dei crediti certi liquidi ed esigibili dal giorno in cui è lo stesso è giunto nella sfera di conoscenza del datore di lavoro “debitore”.

Ma, come detto, la riflessione che segue vuol cercare di metter in evidenza le criticità della prescrizione di crediti di lavoro dopo la “fine sostanziale” della “tutela reale” dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e senza che il Legislatore si sia mosso per risolvere le questioni incombenti.

Ovviamente, allorquando si parla di crediti da lavoro, pur se il pensiero va, innanzitutto, ai lavoratori subordinati, non sono affatto esclusi da una qualsivoglia rivendicazione anche i lavoratori autonomi per i quali la Cassazione, con la sentenza n. 1663 del 23 gennaio 2020, ha affermato che si applica “in toto” la disciplina sui rapporti di lavoro subordinato”, come previsto dall’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015, laddove nelle collaborazioni continuative di natura personale (ma la modifica introdotta con il D.L. n. 101/2019 parla di “prevalentemente personali”) si riscontri una etero organizzazione da parte del committente: la novella del D.L. n. 101, poi convertito nella legge n. 128, ha, rafforzando le tutele, tolto il riferimento “anche ai luoghi ed ai tempi di lavoro” ed ha esteso il campo di applicazione (con un occhio rivolto ai riders) alle collaborazioni rese anche attraverso le piattaforme digitali.

Prima di entrare nel merito delle questioni credo che sia opportuno fare una breve ricognizione dell’istituto, quale si è venuto sviluppando e consolidando, nel corso degli anni, nel solco tracciato dalle sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione.

Il trascorrere del tempo, infatti, può portare alla perdita dei diritti di cui un lavoratore è portatore per effetto di una mancata rivendicazione.

La prescrizione dei crediti retributivi (art. 2946, 2948, 2955 e 2956, c.c.) può, quindi, determinare la perdita di un diritto acquisito, atteso che regola generale è che tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro debbono esser richiesti ed esercitati entro un certo periodo. Per la richiesta dei crediti non è necessaria una particolare forme, essendo sufficiente che la stessa sia inserita in una nota, datata e sottoscritta, finalizzata, in maniera esplicita, a rendere idonea la volontà del lavoratore “creditore”.

La maggior parte dei crediti, come quelli di natura retributiva corrisposti con una periodicità annuale od inferiore, compresi gli eventuali interessi, soggiacciono alla prescrizione estintiva quinquennale (art. 2948, n. 4 e 5, c.c.): tra essi sono, senz’altro, da comprendere, le retribuzioni, lo straordinario (Cass., 20 gennaio 2010, n. 947), il pagamento delle festività lavorate nazionali e di qualsiasi altro credito di lavoro (Cass., 10 novembre 2004, n. 21377) e secondo l’orientamento della Suprema Corte  le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, come il TFR (Cass., 13 novembre 2001, n. 14091) e l’indennità sostitutiva del preavviso (Cass., 22 giugno 2004, n. 15798).

In materia di decorrenza dei termini per l’esercizio dei diritti si sono occupate, in passato più volte, come dicevo, sia la Consulta che la Corte di Cassazione, partendo da una decisione del primo organo, la n. 63 del 10 giugno 1966, con la quale si sostenne che i termini decorrevano dalla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto il lavoratore, in costanza di rapporto,  si trovava in una condizione di sudditanza psicologica che si concretizzava “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere lo stesso sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti”.

Tale regola del differimento fu, poi, soggetta a correzioni per effetto della entrata in vigore nel nostro ordinamento sia della legge n. 604/1966 che dell’art. 18 della legge n. 300/1970, fino a giungere alla sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972 ove, per la prima volta, fu decisa la questione, risolta in senso positivo, se a fronte di una tutela legislativa “garantista”, non fosse venuto meno il fondamento giuridico che aveva portato, con la decisione n. 63/1966, a posticipare il decorso dei termine alla fine del contratto di lavoro. La conclusione a cui si giunse fu che il differimento dei termini poteva applicarsi ogni qual volta “che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.

Tale orientamento fu sposato dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 12 aprile 1976, n. 1268) e confermato da sentenze successive.

Esse affermarono che la decorrenza della prescrizione ordinaria quinquennale “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende dal grado di stabilità del rapporto stesso, ritenendosi stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

Di conseguenza, limitando la riflessione alla prescrizione quinquennale e tralasciando quella decennale per crediti aventi natura risarcitoria (ad esempio, integrità psico – fisica del lavoratore), o quella annuale (ad esempio, paga settimanale), si può, nella sostanza, affermare che per parte dei lavoratori (assunti fino al 6 marzo 2015) la prescrizione dei crediti di lavoro si prescriva, nel quinquennio dalla loro maturazione, in costanza di rapporto di lavoro, qualora lo stesso sia tutelato dall’art. 18, sia pure riformato dalla legge n. 92/2012, mentre per i lavoratori rientranti nell’ambito della c.d. “tutela obbligatoria”, ove il recesso illegittimo (fatti salvi i casi di nullità o di discriminazione) viene “ristorato” da una indennità di natura economica, il termine decorre dalla cessazione del rapporto. La “tutela reale” piena aveva cominciato ad incrinarsi con la riforma dell’art. 18 avvenuta nel 2012 con la legge n. 92, laddove il licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo è sanzionato con una indennità risarcitoria compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto.

Le premesse che hanno accompagnato questa breve riflessione sono state necessarie per comprendere come il quadro di riferimento, relativo ai lavoratori ai quali si applica il D.L.vo n. 23/2015, sia profondamente cambiato.

La tutela reale prevista dall’art. 18 (fatte salve le ipotesi residuali previste dall’art. 2 ed il licenziamento disciplinare per fatto materiale insussistente) non c’è più, essendo stata sostituita in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo o giusta causa da una indennità monetaria pari, dopo l’intervento del D.L. n. 87/2018,  a tre mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR per ogni anno di anzianità aziendale, partendo da una base di sei, fino ad un massimo di trentasei(per i datori di lavoro dimensionati fino a quindici dipendenti e per le associazioni di tendenza gli importi sono ridotti della metà con un tetto fissato a sei mensilità).

L’intervento della Corte Costituzionale sull’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015 ha, ulteriormente, rafforzato l’indennità risarcitoria affermando che il giudice può ben integrare, con motivazioni, il criterio, oltre modo importante, dell’anzianità aziendale aumentato dal D.L. n. 87/2018, convertito nella legge n. 96 con quelli previsti dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti nella controversia, ecc.).

Da quanto appena detto, a mio avviso, non essendo più garantita la stabilità “reale”, ovviamente riconoscibile attraverso il giudizio, il decorso dei termini della prescrizione quinquennale (in assenza di uno specifico intervento normativo) non potrà che decorrere, per tutti i lavoratori assunti nel settore privato a partire dal 7 marzo 2015, a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro. Per i dipendenti da imprese con un organico superiore alle quindici unità, assunti prima di tale data, continuerà la prescrizione quinquennale continuerà ad operare “in costanza di rapporto di lavoro”, pur se le novità introdotte in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dalla legge n. 92/2012, lasciano qualche dubbio.

Eufranio Massi

Autore: Eufranio Massi

esperto in Diritto del Lavoro - relatore a corsi di formazione in materia di lavoro

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