Articolo: Le dimissioni durante il periodo di prova

approfondimento di Eufranio Massi per il n. 155 della rivista “Il Mondo del consulente”.

  

LE DIMISSIONI DURANTE IL PERIODO DI PROVA

Nel corso del 2025 si è fatto un gran parlare di dimissioni dal rapporto di lavoro, argomento alimentato, soprattutto, da quelle per fatti concludenti, disciplinate dall’art. 19 della legge n. 203/2024 e della particolarità dell’istituto che si pone, in parallelo, ma con disciplina e conseguenze diverse, rispetto a quella prevista nei contratti collettivi per le assenze ingiustificate del lavoratore.

L’argomento sul quale intendo effettuare una breve riflessione scaturisce da una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 24911/2025, con la quale è stata affrontata la questione delle dimissioni durante il periodo di prova revocate entro il termine usuale dei sette giorni successivi, previsto dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015.

La particolarità della decisione della Corte scaturisce dal fatto che si pone in aperto contrasto con le indicazioni amministrative fornite dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 12/2016.

Secondo i giudici di Piazza Cavour, nel caso in cui un dipendente presenti le proprie dimissioni durante il periodo di prova, revocandole entro i sette giorni successivi, il rapporto si ricostituisce ed il datore di lavoro è tenuto a consentire il completamento della prova, non potendolo, neanche, sostituire, come affermato dal giudice di merito, con una indennità di natura risarcitoria.

Per ben comprendere i contenuti dell’ordinanza occorre, a mio avviso, focalizzare l’attenzione sulla circolare del Ministro del Lavoro n. 12/2016, sottoscritta (fatto molto singolare) da ben tre Dirigenti Generali, la quale, dopo aver indicato le cause di esclusione dal “ripensamento” (punto 1.2), si sofferma sui contenuti del modulo adottato dal Ministero del Lavoro con il D.M. 15 dicembre 2015, sui soggetti abilitati alla procedura, sulle modalità di compilazione e di trasmissione del modello e sull’apparato sanzionatorio previsto dal comma 4 dell’art. 26.

La nota ministeriale dispone che le fattispecie escluse dalla disciplina introdotta dall’art. 26, sono:

  1. Le dimissioni dal rapporto di lavoro domestico e quelle intervenute nelle c.d. “sedi protette” come, ad esempio, la Commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro, la sede sindacale, o la sede delle commissioni di certificazioni, come quelle istituite presso ogni Ordine provinciale dei Consulenti del Lavoro;
  2. Le dimissioni durante il periodo di prova ex art. 2096 c.c.;
  3. Le dimissioni e le risoluzioni consensuali dal rapporto di lavoro presentate dalla lavoratrice nel periodo di gravidanza o entro l’anno dall’affido o dall’adozione o dalla lavoratrice/lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino. A queste ipotesi va aggiunta, oggi, quella del lavoratore che fruisce del periodo obbligatorio di paternità introdotto dal D.L.vo n. 105/2022, quello del lavoratore che fruisce del congedo obbligatorio entro un anno dalla nascita del bambino in sostituzione della madre (ad esempio, perché morta o gravemente malata o perché unico affidatario) e del genitore intenzionale in una coppia di donne, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 115/2025;
  4. Le dimissioni nel rapporto di lavoro marittimo, in quanto il contratto di arruolamento dei lavoratori marittimi è disciplinato dal Codice della Navigazione.

La Cassazione ritiene che la tesi del Dicastero del Lavoro, finalizzata alla esclusione dal diritto di “ripensamento” del lavoratore che si dimette durante il periodo di prova, non presenti alcun fondamento giuridico, atteso che la disposizione legale non ne parla: il ragionamento amministrativo seguito dagli organismi ministeriali va “oltre una mera attività interpretativa”. Ricordo, per inciso, che, secondo un indirizzo costante della Suprema Corte, le circolari amministrative sono un atto interno e presentano, in via generale, un vincolo per i funzionari ma non possono, in alcun modo vincolare i giudici.

Per la Corte le finalità del patto di prova (periodo entro il quale le parti valutano se il rapporto può “consolidarsi”, pur se, oggi, per effetto dell’art. 13 della legge n. 203/2024 è, nella stragrande maggioranza dei contratti a tempo determinato molto breve e uguale a prescindere dalle qualifiche e dalle mansioni) e quelle delle dimissioni non sono destinate ad incontrarsi, essendo, nella sostanza, parallele, in quanto il primo è funzionale alla valutazione della convenienza ed il secondo ha come obiettivo quello di combattere le c.d. “dimissioni in bianco”.

In tale contesto “il ripensamento” delle dimissioni entro sette giorni ha lo stesso valore, nel senso che risponde alla necessità di evitare forme di abuso da parte del datore di lavoro.

Da tale assunto la Cassazione fa discendere un’altra considerazione: il rapporto va ricostituito per consentire all’interessato di terminare il periodo di prova con la conseguenza che tale principio non può essere sostituito dalla erogazione di una indennità risarcitoria correlata al periodo residuo.

Ovviamente, il ripristino del rapporto non esclude la possibilità che il datore di lavoro receda dal contratto al termine del periodo di prova o entro un termine congruo idoneo a valutare la capacità del neo dipendente finalizzata ad un proficuo inserimento nella organizzazione aziendale.

La decisione dei giudici di legittimità dovrebbe spingere, a mio avviso, il Ministero del Lavoro ad espungere dalla circolare n. 12/2016 al punto 1.2, la lettera b) che esclude dalla procedura dell’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015, il recesso durante il periodo di prova.

 

Eufranio MASSI

Eufranio Massi

Autore: Eufranio Massi

esperto in Diritto del Lavoro - relatore a corsi di formazione in materia di lavoro

Condividi questo articolo su