Cassazione: criteri di scelta nei licenziamenti collettivi ed orientamenti difformi della Suprema Corte

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Con due sentenze, nella sostanza contrastanti, emesse nel giro di pochi giorni, la Cassazione torna ad occuparsi dei criteri di scelta dei lavoratori da mettere in mobilità al termine della procedura collettiva di riduzione di personale.

La questione dirimente riguarda i criteri di scelta indicati dal Legislatore, in mancanza di indicazioni nell’accordo collettivo, che l’art. 5 della legge n. 223/1991 indica, in concorso tra loro, nei carichi di famiglia, nell’anzianità e nelle esigenze tecnico produttive.

Con una prima sentenza del 16 ottobre 2015 (Cass., 21015/2015) si è affermato che il datore di lavoro non può restringere la scelta dei lavoratori da porre in mobilità alle sole figure professionali del reparto o settore in cui sono stati ravvisati gli esuberi ma, nel rispetto dei principi generali di correttezza, deve estendere la propria valutazione anche ad altri settori non interessati alla riduzione ma ove operano lavoratori con professionalità equivalenti.

Con una seconda sentenza intervenuta il 21 ottobre 2015 (Cass., 21476/2015), la Suprema Corte, rifacendosi ad un filone interpretativo che nel corso del 2015 è stato ribadito dalle sentenze n. 203 e n. 4678, avalla una interpretazione diversa: è legittimo delimitare il campo di applicazione della comparazione sui criteri di scelta ai dipendenti occupati nel solo settore interessato dal “surplus” di personale.

Probabilmente, per dirimere la questione, sarà necessario un intervento delle Sezioni Unite: ciò che preme sottolineare, in questa sede, e’ che la scelta dei criteri per il datore di lavoro si configura come ” un terno al lotto”, nel senso che solo all’atto della decisione l’imprenditore sa se ha sbagliato o meno. La cosa non è secondaria sol che si pensi che, per i vecchi assunti prima del 7 marzo 2015, l’erronea applicazione dei criteri di scelta comporta la reintegra nel posto di lavoro con il pagamento della retribuzione e della contribuzione dal momento del licenziamento fino al ripristino del lavoratore nell’attività, con la possibilità per quest’ultimo di esercitare il c.d. “opting out” con il pagamento di una indennità legata alla rinuncia alla reintegra pari a 15 mensilità.

Il discorso si presenta leggermente diverso per i “nuovi assunti” ove la violazione dei criteri di scelta è sanzionata con due mensilità all’anno (calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR) partendo da una base di quattro fino ad un massimo di ventiquattro mensilità.

 

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Autore: La Redazione

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