Articolo: Festività: quando un dipendente può rifiutarsi di lavorare

approfondimento di Eufranio Massi per The world of il Consulente (n. 101 – anno IX – settembre 2019)

Festività: quando un dipendente può rifiutarsi di lavorare

Il rifiuto di un lavoratore a prestare attività in un giorno festivo come, ad esempio, l’Epifania o l’8 dicembre, i suoi “mugugni” rilevabili, soprattutto,  nelle imprese di piccole dimensioni, sono cose che i datori di lavoro ben conoscono e che, talora, creano problemi operativi. La domanda che, quindi, occorre farsi è la seguente: ci sono festività ove,  legittimamente, il dipendente può rifiutarsi di lavorare?

Anche in questo caso è stata la Magistratura a rispondere, specificando, con assoluta chiarezza, ciò che il Legislatore ha affermato tanti anni or sono. Con una sentenza che si inserisce in un orientamento  consolidato (Cass., 8 luglio 2019 n. 18887), la Cassazione riafferma il principio che nelle festività infrasettimanali individuate dalla legge n. 260/1949, il lavoratore può astenersi dal prestare la propria attività lavorativa, pur in presenza di un ordine datoriale o di un accordo collettivo, anche aziendale, stipulato senza un suo esplicito mandato.

Da ciò discende che sono, sono assolutamente illegittimi sia provvedimenti di natura espulsiva (licenziamenti), come nel caso trattato nella sentenza n. 18887/2019, che conservativa (ammonizioni scritte  od orali, multe o sospensioni).

Il discorso non riguarda, assolutamente, il lavoro domenicale, inteso come riposo settimanale, inquanto la specifica disposizione contenuta nell’art. 9 del D.L.vo n. 66/2003, ne consente la fruizione entro un arco temporale di quattordici giorni.

Un esame della questione non può prescindere dalla individuazione delle giornate festive richiamate nella legge del 1949 ricordando che l’elencazione del Legislatore dell’epoca comprende anche festività abolite o spostate alla domenica antecedente o successiva e che quindi non vanno prese in considerazione, come il 19 marzo (San Giuseppe), l’Ascensione, il Corpus Domini, i Santi Pietro e Paolo (29 giugno) ed il 4 novembre.

Fatta questa dovuta precisazione, va detto che gli effetti della decisione della Cassazione si riferiscono al:

a) 1 gennaio;
b) 6 gennaio;
c) 25 aprile;
d) 1 maggio;
e) 15 agosto;
f) 1 novembre;
g) 8 dicembre;
h) 25 dicembre;
i) 26 dicembre.

Per completezza di informazione, ricordo che nel corso degli anni, anche per effetto dell’accordo concordatario con la Santa Sede, le festività sono state oggetto di varie disposizioni che si sono succedute  nel tempo come le leggi n. 90/1954, n.54/1977, n.336/2000 ed il DPR n. 792/1985 e che i contratti collettivi fanno riconosciuto, quali festività aggiuntive, quelle del Santo Patrono, quelle “speciali” per  determinati settori (ad esempio, Santa Barbara per gli addetti al settore minerario ed i Vigili del Fuoco) o i giorni “semi festivi” nel settore del credito (vigilia di Natale e di Capodanno).

I lavoratori di religione ebraica, a richiesta, possono fruire delle festività previste dalla loro fede e, ogni anno, il Ministero dell’Interno le individua nell’ambito del calendario di riferimento per effetto degli articoli 4 e 5 della legge n. 101/1989, mentre per gli induisti è possibile osservare la festività del “Dipavali” (art. 25 della legge n. 246/2012). Nulla dice il Legislatore per le festività previste da altre religioni  come, ad esempio, quella islamica: la contrattazione collettiva, anche aziendale, può, tuttavia, prevedere forme di astensione dal lavoro in determinati giornate di ricorrenza.

Entrando nel merito della sentenza della Cassazione, va sottolineato come la legge n. 260/1949 sia stata definita completa ed autosufficiente e, richiamando una linea interpretativa già delineata nel 2016 con la sentenza n. 22482, viene esclusa la possibilità di integrazioni analogiche o di commistioni con altre discipline.

La legge n. 260 non ha esteso, come ricordava la sentenza n. 16592/2015, alle festività  infrasettimanali le eccezioni alla inderogabilità pur previste, in alcune situazioni, dalla legge n. 370/1934. L’unica eccezione possibile, riguarda il settore sanitario “per il personale, di qualsiasi categoria, alle dipendenze di istituzioni sanitarie pubbliche e private, nel caso che esigenze del servizio non permettano tale  riposo”.

Il diritto all’astensione lavorativa nelle festività infrasettimanali indicate nella legge del 1949 è un diritto soggettivo che è pieno ed ha carattere generale, come già ricordato dalla sentenza della stessa  Suprema Corte n. 21209/2016. Da tale previsione discendono alcuni principi che si riverberano, direttamente, sulla organizzazione del lavoro.

La Cassazione afferma che che un normale accordo collettivo (aziendale, territoriale o nazionale) non può modificare il diritto e che ciò può avvenire soltanto con un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore o con un accordo collettivo ove risulti, esplicitamente, il mandato a stipulare al sindacato da parte del singolo lavoratore o dei lavoratori finalizzato alla stipula della deroga.

Se le cose stanno in questi termini, gli effetti potrebbero essere effettivamente destabilizzanti e di  difficile soluzione in quelle realtà (si pensi, ad esempio, agli esercizi aeroportuali ma anche, ai trasporti urbani o extra urbani, alla grande distribuzione, al settore alberghiero o agli outlet ) ove va assicurato il servizio, soprattutto, in giorni “critici” per l’utenza. Se, in determinati giornate le assenze dal lavoro   dovessero essere tali da non garantire un efficace servizio, il datore di lavoro dovrà, necessariamente, fare ricorso, ove possibile, a tipologie contrattuali che riguardino altri lavoratori da utilizzare (lavoro  somministrato, lavoro intermittente, assunzioni a termine per servizi particolari nei settori del commercio e dei pubblici esercizi, ecc.).

I giudici ritengono, come detto pocanzi, che la deroga debba risultare soltanto da accordi individuali (addirittura, in passato, il giudice di Treviso sostenne che tale accordo andava sottoscritto, di volta in  volta, con i singoli interessati, cosa che, oggettivamente, avrebbe creato problemi e questioni insuperabili) o collettivi, con specifico mandato Ma, questo punto, una domanda sorge spontanea: può il datore di lavoro, inserendo una specifica clausola, nella lettera di assunzione, acquisire un consenso generalizzato, per tutte le festività infrasettimanali richiamate dalla legge n. 260/1949?

La risposta al quesito è positiva pur se c’è il rischio che un vincolo, fissato “a priori” prima dell’inizio della prestazione lavorativa, “leghi” il lavoratore per tutto il periodo di attività alle dipendenze: se è un diritto di valenza generale si ritiene, però, che qualora sia stato oggetto di rinuncia al momento dell’assunzione (il dipendente potrebbe essersi trovato in una situazione di subalternità “psicologica”), si possa ripristinarlo, recedendo dal consenso prestato e dando un congruo avviso, per consentire al datore di organizzare diversamente il lavoro.

In ogni caso, seppur fattibile per i nuovi assunti, per i “vecchi” non appare modificabile la lettera di assunzione e, quindi, si dovrà procedere con un accordo individuale.

La forma preferibile per il consenso preventivo è, ovviamente, quella scritta che, potrebbe avvenire non soltanto con la redazione di uno specifico atto come si è detto pocanzi, ma anche attraverso la sottoscrizione del dipendente, apposta ad una “scheda di adesione” alla prestazione lavorativa in una giornata festiva infrasettimanale, portata a conoscenza degli interessati con un congruo anticipo.

Con gli indirizzi giurisprudenziali più volte citati, i giudici di legittimità hanno, altresì, riconosciuto che il riposo per le festività, come il riposo domenicale (che, però, può essere oggetto di flessibilizzazione alla luce dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 66/2003) non ha soltanto la funzione di ristoro delle energie psico fisiche perdute per effetto delle prestazioni svolte, ma anche quello della fruizione di un tempo libero qualificato cosa che ha fatto affermare al difensore di una parte nel corso di uno dei tanti giudizi, che i tempi di conciliazione tra casa, lavoro e famiglia “hanno un valore assoluto che  deve essere necessariamente sottratto a quella logica di consumo che permea la nostra attuale società”.

A conclusione di questa breve riflessione, ritengo necessario soffermarmi, brevemente, su due considerazioni finali.

La prima riguarda la contrattazione collettiva. La Corte non ha ritenuto che eventuali accordi collettivi potessero avere una “natura gestionale” e, come tali, vincolare, indistintamente, tutti i lavoratori, come nel caso, di quelli raggiunti nelle procedure collettive di riduzione di personale o nell’attivazione dei contratti di solidarietà difensiva.

La ragione è evidente: nelle ipotesi appena citate le RSU, le RSA e le organizzazioni territoriali di categoria sono individuate, direttamente, dal Legislatore come espressione di esigenze collettive che vincolano anche i non iscritti alle organizzazioni.

La seconda riguarda il contratto di prossimità: si potrebbe intervenire con tale strumento, previsto dall’art. 8 del D.L. n. 138/2011 convertito, con modificazioni, nella legge n. 148, sottoscritto ed approvato secondo le determinazioni previste dalla norma?

Il contratto di prossimità ha una valenza di deroga (eccezionale ed entro certi limiti) sia alla legge che al contratto collettivo in presenza di obiettivi di scopo ben individuati e misurabili, ma non ritengo che ciò sia possibile in quanto tra le materie, pur ampie, sulle quali si può intervenire, previste al comma 2, non ci sono le festività infrasettimanali individuate dalla legge n. 260/1949 che, anzi, vengono definite dalla Suprema Corte come espressione di un diritto soggettivo pieno, a valenza generale, in capo al singolo dipendente.

 

Eufranio Massi

Autore: Eufranio Massi

esperto in Diritto del Lavoro - relatore a corsi di formazione in materia di lavoro

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