Articolo: I contratti a termine dopo il decreto Lavoro

approfondimento di Eufranio Massi per il n. 137 della rivista “Il mondo del consulente”.

I CONTRATTI A TERMINE DOPO IL DECRETO LAVORO

Dopo tanta attesa e tante opinioni espresse dagli operatori sui “media”, il giorno 4 maggio 2023, sulla Gazzetta Ufficiale n. 103 è stato pubblicato il D.L. n. 48, attraverso il quale il Governo ha dato immediata applicazione ad alcune disposizioni urgenti in materia di lavoro che, tra le altre cose:

  1. L’assegno di inclusione sociale;
  2. I benefici per i datori di lavoro che assumeranno a tempo indeterminato i c.d. “NEET” non ancora trentenni, nel periodo compreso tra il primo luglio ed il 31 dicembre;
  3. Le misure di rafforzamento della sicurezza sul lavoro;
  4. Un aumento (temporaneo) del cuneo fiscale per le fasce più basse dei lavoratori dipendenti;
  5. Modifiche al c.d. “Decreto Trasparenza” con l’attenuazione di alcuni adempimenti operativi;
  6. Una precisazione tecnica sui contratti di espansione finalizzata alla uscita volontaria dei lavoratori individuati;
  7. Un aumento del valore dei voucher, attivabili attraverso la piattaforma INPS per alcuni settori di attività;
  8. Modifiche migliorative sui piani di welfare e sulle somme esentasse elevate, in alcuni casi per il solo
  9. Le causali relative al contratto a tempo determinato;

Altre parti significative sono rinviate all’esame di un disegno di legge e, tra queste, ce ne sono alcune che riguardano le dimissioni ex art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e la durata del periodo di prova nei contratti a tempo determinato.

In questa breve riflessione parlerò dei contratti a tempo determinato le cui modifiche, probabilmente, sono state inferiori alle attese di molti professionisti ed operatori.  Si è posto, ad esempio, l’accento sui “media” su una liberalizzazione dei contratti a termine che sono utilizzabili senza l’apposizione di alcun condizione, per 12 mesi, ma ciò era possibile anche prima, atteso che le causali dovevano essere inserite o al superamento della soglia massima o in caso di rinnovo, come ora.

Ma, andiamo con ordine.

Le nuove causali del contratto a tempo determinato

Per quel che riguarda i contratti a termine che, ovviamente, riflettono, tenuto conto dell’impostazione della norma, i propri effetti anche sui contratti di somministrazione a termine, il D.L. n. 48, all’art. 24, si è limitato ad intervenire sulle causali che, inserite, nel c.d. “Decreto Dignità” (D.L. n. 87/2018 convertito, con modificazioni, nella legge n. 96), erano sembrate, immediatamente, di difficile applicazione, fatta salva la condizione relativa alla sostituzione dei lavoratori assenti. Infatti, era risultato difficile coniugare, ad esempio, sia le esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività ordinaria prevista dalla lettera a), che le esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, individuate dalla lettera b).

In caso di contenzioso giudiziale risultava particolarmente arduo individuare la presenza di tali elementi, sì da scongiurare la conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato. Con lo scoppio della pandemia e con l’esigenza di dover, comunque, assicurare la salvaguardia di più posti di lavoro possibili, attraverso la decretazione d’urgenza e per periodi determinati, più volte prorogati, si giunse al graduale “stop” delle causali impossibili del “Decreto Dignità” e, al contempo, si diede piena legittimità alla contrattazione collettiva di prevedere “specifiche esigenze”. Al contempo, attraverso la contrattazione collettiva, anche aziendale, per aggirare, legittimamente, la rigida casistica, si sono ampliate le attività riconosciute come stagionali in molte imprese o settori di attività e, inoltre, per attenuare la suddetta rigidità, talora si è fatto ricorso, ai contratti di prossimità ex art. 8 del D.L.vo n. 138/2011.

Ma, tornando al tema oggetto di questa riflessione, esaminiamo il percorso intrapreso dall’Esecutivo.

Si è proceduto a riscrivere il comma 1 dell’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015 (già modificato, a suo tempo dal D.L. n. 87/2018) affermando che le condizioni apponibili sono quelle individuate:

  1. Nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51;
  2. In assenza della previsione della contrattazione collettiva di cui alla lettera a), per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti, e in ogni caso entro il 30 aprile 2024;
  3. In sostituzione di altri lavoratori.

Nella sostanza, viene reintrodotto il “causalone” che, ben presente nel D.L.vo n. 368/2001, era stato superato con il provvedimento del “Governo Renzi”.

Il successivo comma 2 che riguarda, “in primis”, la Pubblica Amministrazione, le Università pubbliche e quelle private, gli Istituti di ricerca ed altri Enti, afferma che per i contratti a tempo determinato continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti prima della data di entrata in vigore del D.L. n. 87/2018 (ossia prima del 13 agosto 2018).

Passo ora ad un breve esame delle condizioni.

La prima nuova causale individuata fa riferimento alla casistica individuata dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale od aziendale (è questo il significato del richiamo all’art. 51) da parte delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale o dalle loro articolazioni territoriali od aziendali (RSA o RSU). Di conseguenza, un datore di lavoro dovrà verificare se il contratto del settore che fa riferimento a tali organizzazioni abbia disciplinato ipotesi specifiche e se non lo ha già fatto può benissimo, impostare una trattativa, con le loro sigle, a livello aziendale per disciplinare una possibile casistica d’impresa.

Ma se la contrattazione collettiva nulla afferma in proposito, il datore può individuare (la norma dice “le parti” ma, francamente, ritengo che il lavoratore non possa avere la capacità di individuare le causali previste dalla lettera b) le esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva alla base della motivazione del contratto a termine che intende instaurare. Si tratta di una norma non strutturale, ma a tempo, destinata a cessare il 30 aprile 2024 e va intesa come una sorta di apertura di credito in favore delle organizzazioni sindacali affinchè adempiano alla delega normativa in tempi abbastanza rapidi

Per questa causale, ma anche per la prima, si pone, a mio avviso, la necessità di declinare le casistiche e le esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva: il rischio, infatti, è quello di incorrere, in caso di contenzioso giudiziale, nell’annullamento del contratto a termine e nella sua conversione in contratto a tempo indeterminato. L’esperienza delle decisioni che si verificarono sotto la vigenza del D.L.vo n. 368/2001 è sotto gli occhi di tutti gli operatori. Di conseguenza, nel momento in cui si sceglie di inserire una specifica condizione, sarà necessario chiarire per iscritto, in modo chiaro e comprensibile, le ragioni che si ravvisano per l’apposizione della causale (acquisizione di una commessa imprevista, punta di stagionalità non prevista determinata ad un afflusso considerevole di ordini, ecc.).

Per quel che riguarda, invece, l’ultima casistica individuata, la disposizione afferma che è possibile in sostituzione di altri lavoratori: “norma larga” che consente il contratto a termine in sostituzione di un lavoratore assente, per qualsiasi ragione, anche, ad esempio, per distacco temporaneo o in trasferta.

Per il resto, ricordo che:

  1. Fatta salva una diversa previsione della contrattazione collettiva (anche aziendale), il contratto a tempo determinato per mansioni riferibili allo stesso livello della categoria legale di inquadramento, non deve superare limite dei 24 mesi. Un ulteriore contratto, per una durata massima di 12 mesi, può essere stipulato avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, competente per territorio. Qui, se mi è consentito (dal momento che il provvedimento è, ora all’esame del Parlamento, per la sua conversione) suggerire un emendamento al comma 3 dell’art. 19, escludendo per tale contratto il c.d. “stop and go” ribadito, negli anni scorso, in via amministrativa, dall’INL. La ragione di tale esclusione appare logica in quanto la prosecuzione oltre il ventiquattresimo mese viene richiesta perché un progetto o un programma non è ancora terminato: applicare la regola generale dello “stacco” di 20 giorni appare “un non senso” che un cittadino comune non riesce a comprendere;
  2. Le proroghe possibili, in un arco temporale di 24 mesi, restano 4;
  3. La possibilità, legittima, dello “sforamento” del termine finale del contratto resta: essa è pari a 30 giorni per i rapporti fino a 6 mesi e di 50 giorni per quelli che hanno una durata superiore. Ovviamente, l’impegno ulteriore va remunerato con un aumento della retribuzione pari al 20% fino al decimo giorno e del 40% per quelli successivi;
  4. Nulla è cambiato per lo “stop and go” (fino a 10 giorni tra due contratti a termine se il primo ha avuto una durata fino ad un massimo di 6 mesi, 20 giorni se di durata superiore).
  5. Nulla è cambiato per quel che concerne i contratti stagionali le cui attività sono individuati dal D.P.R. n. 1525/1963 (per il quale, pur essendoci una specifica previsione normativa dal 2015 che invita il “Ministro del Lavoro pro-tempore” a prevederne uno nuovo, non è stato fatto nulla) e dalla contrattazione collettiva, anche aziendale;
  6. Nulla è cambiato in ordine alla percentuale massima di contratti stipulabili e delle eccezioni previste;
  7. Nulla è cambiato per quel che riguarda l’apparato sanzionatorio.
  8. Nulla è cambiato, infine, per il diritto di precedenza previsto dall’art. 24.
Eufranio Massi

Autore: Eufranio Massi

esperto in Diritto del Lavoro - relatore a corsi di formazione in materia di lavoro

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