Articolo: Le dimissioni per fatti concludenti dopo alcune sentenze di merito
approfondimento di Eufranio Massi per il n. 158 della rivista “Il Mondo del consulente”.
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LE DIMISSIONI PER FATTI CONCLUDENTI DOPO ALCUNE SENTENZE DI MERITO
La disciplina introdotta con l’art. 19 della legge n. 203/2024, con la quale l’Esecutivo ha pensato di contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco (ben conosciuto dagli operatori del settore) è, ora, sotto gli occhi dei giudici di merito che, con le loro prime decisioni, stanno fornendo (in parte) una lettura ben diversa da quella che, in via amministrativa, ha fornito il Ministero del Lavoro.
Prima di entrare nel merito delle riflessioni sulle sentenze della Magistratura (penso alle recenti decisioni dei Tribunali di Trento, Milano e Bergamo, quest’ultimo con un orientamento opposto ai primi due ma anche a quella di Ravenna), credo che sia opportuno rileggere, con attenzione, quanto affermato dall’art. 19 che ha inserito nel “corpus” dell’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015, il comma 7-bis: “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato dal rapporto di lavoro o, in mancanza di una previsione contrattuale, superiore a quindici giorni di calendario, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del
Lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo (ossia le dimissioni telematiche). Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il datore di lavoro dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.
I giudici di Trento (sentenza n. 87/2025) e, da ultimo, quello di Milano (sentenza n. 4953/2025), si sono discostati dalla interpretazione amministrativa del Dicastero del Lavoro intervenuta sia con la circolare n. 6/2025 che con note e FAQ successive, affermando, nella sostanza, che il Legislatore ha affidato alla contrattazione collettiva l’onere di fissare una disciplina per le assenze ingiustificate e che, solo in mancanza di previsione contrattuale, scatta la procedura legale di assenza per un periodo superiore a quindici giorni che prevede la comunicazione all’Ispettorato territoriale del Lavoro con l’instaurazione della procedura ben delineata dalla norma e dai chiarimenti ministeriali.
Il Tribunale di Milano ha sottolineato come il Ministero del Lavoro abbia fornito una interpretazione “frutto di una lettura parziale e decontestualizzata della norma” ricordando che il rinvio operato dal Legislatore all’autonomia collettiva, ha il significato di una valorizzazione dell’accordo collettivo sulla gravità dell’assenza operando una mutazione della “qualificazione giuridica degli effetti della condotta”, del
lavoratore da un presupposto per un licenziamento disciplinare per il quale occorre seguire le procedure garantiste dell’art. 7 della legge n. 300/1970 (contestazione, diritto a difesa, eventuale audizione e adozione del provvedimento di recesso) ad una manifestazione della volontà del dipendente di
abbandonare il posto di lavoro.
Il giudice di Bergamo, con la sentenza n. 837/2025, dichiarando inefficace un licenziamento, ha affermato, in un passaggio della decisione, che il termine stabilito dal contratto collettivo ha lo scopo di “individuare la misura della gravità dell’inadempimento che le parti collettive ritengono sufficiente a rendere intollerabile la prosecuzione del rapporto lavorativo con conseguente possibilità per il datore di lavoro di procedere alla
sanzione disciplinare con le garanzie previste ex lege n. 300/1970”. Su un piano diverso, si pone la procedura ed i termini previsti per le dimissioni per fatti concludenti, “peraltro non assistite dalle penetranti garanzie ex lege n. 300/1970”. Le dimissioni per fatti concludenti, proprio perché si pongono su un piano diverso e non presentano alcuna caratteristica d tutela legale, necessitano di “un termine più lungo di quello generalmente previsto dai CCNL ai fini del licenziamento disciplinare che sia idoneo a rendere inequivocabile il disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto”.
C’è, poi una recentissima decisione del Tribunale di Ravenna, resa nota lo scorso 12 dicembre (sentenza n. 441/2025) ove, accettando un ricorso di un lavoratore, si afferma che:
- La norma colma un errore di disciplina ma si rivela altamente carente dal punto di vista degli elementi strutturalmente necessari per integrarne la fattispecie;
- Non è stato chiarito se il termine di assenza ingiustificata “sia quello previsto dai singoli CCNL per attivare la fattispecie disciplinare del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o se, piuttosto, si tratti di un termine diverso e necessariamente più lungo”;
- In mancanza di una previsione ad hoc prevista dai CCNL in quanto quelli “eccessivamente brevi non consentono di indurre, con una presunzione legale assoluta una volontà dimissionaria” valgono sempre i quindici giorni.
Come ben si vede, si tratta di due indirizzi opposti che si confrontano nella Magistratura di merito e, probabilmente, occorrerà attendere ulteriori decisioni (anche di grado superiore) per stabilire l’indirizzo prevalente. Se dovesse prevalere il primo si assisterebbe, nella sostanza, ad un progressivo esautoramento della procedura delle dimissioni di fatto che nelle intenzioni del Legislatore ha come obiettivo principale la fine di una utilizzazione “distorta” della NASPI (art. 1, comma 171, della legge n. 207/2024, corrisposta a chi, volontariamente, si è allontanato dal posto di lavoro senza effettuare la procedura telematica prevista, cosa gradita, peraltro al datore di lavoro che non è tenuto sia al pagamento del ticket di ingresso alla indennità di disoccupazione (circa 1900 euro quale tetto massimo per tre anni di anzianità) che alla corresponsione, se dovuta, dell’indennità di preavviso.
La stragrande maggioranza dei contratti collettivi prevede che l’assenza ingiustificata scatti, trascorso un periodo che va dai tre ai cinque giorni con applicazione delle garanzie previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970: questa verrebbe ad essere la procedura predominante (nel caso in cui si dovesse seguire l’indirizzo del Tribunale di Milano) che si conclude con il licenziamento disciplinare e con tutti gli adempimenti conseguenti per il datore di lavoro.
A questo punto si pone, per gli operatori e per i datori di lavoro una domanda: che fare?
La linea che mi sento di consigliare è quella prudenziale che segue le indicazioni del Ministero del Lavoro con l’applicazione precisa del termine dei quindici giorni, fatte salve le situazioni chiare e documentabili dalle quali non si riscontri una volontà finalizzata all’abbandono “di fatto” del posto di lavoro, alla comunicazione puntuale all’ITL competente per territorio ed alla raccolta di tutta la documentazione probante relativa all’assenza prolungata non giustificata.
Eufranio MASSI



